passiondi Vittorio Messori

– I cristiani sono tali perché hanno dato retta a un gruppo di ebrei, stando ai quali un predicatore ambulante aveva sollevato delle speranze messianiche. Tutto sembrava finito nella maniera peggiore, su quella croce che i romani riservavano agli schiavi e che suscitava in Israele uno sgomento religioso: «Maledetto colui che è appeso al legno», Deuteronomio. Stando comunque a quegli ebrei, un paio di notti dopo il seppellimento, mentre se ne stavano nascosti in attesa di tornare, furtivi e delusi, alle loro case, era stato trovato vuoto il sepolcro del crocifisso. Questi, anzi, era riapparso, per quaranta giorni aveva mangiato in loro compagnia ed era poi stato «elevato al Cielo sotto i loro occhi». Così la storia che quegli ebrei annunciarono prima ai confratelli nella diaspora (e molti si convinsero, allora e dopo: verso il 250, Origene valuta in 150.000 i soli israeliti di conversione recente) e poi ai pagani, con il risultato che conosciamo.
Cuore e base della nuova fede era un dramma in tre atti – passione, morte, risurrezione – assolutamente inatteso per la prospettiva ebraica. L’ultima cosa che un israelita, di ogni scuola, si aspettava dal Messia è che finisse su una croce e poi risorgesse: rifiutando, per giunta, di apparire in gloria a coloro che gli avevano inflitto una morte vergognosa e limitandosi a dare prove del suo trionfo sulla morte ai suoi pochi e pavidi seguaci. I Vangeli ci riportano la rivolta di quei discepoli – e la dura replica del Maestro – ad ogni accenno non solo di una fine, ma di una fine tragica. Il maggior motivo di credibilità dei racconti di resurrezione sta proprio in questo: soltanto uno sconvolgente prodigio divino poteva tirar fuori quei pii circoncisi dalla disperata delusione in cui li aveva immersi la vista del patibolo. Per il fariseo Saulo-Paolo, la croce su cui finisce il Figlio di Dio è «scandalo e follia» per tutti, ma soprattutto per chi, come gli ebrei, attendeva un Unto di Jahvè vincitore, un trionfatore al contempo religioso e politico. Soltanto davanti all’evidenza ci si dovette rassegnare al fatto che Egli stesso aveva voluto che andasse così.
Quella giudeo-cristiana non a caso definisce se stessa come una “rivelazione”: non gli uomini, ma Dio stesso ne ha stabilito il copione. Al centro di esso sta un patibolo che nessun ebreo avrebbe mai immaginato né tanto meno auspicato e che è stato duro accettare. Lo sarà anche per i non ebrei: il graffito del Palatino mostra un cristiano inginocchiato davanti a un asino crocifisso. La croce di Ercolano era coperta da uno sportello, probabilmente per stornare i sarcasmi. Per sottrarsi a questi, ma anche alle persecuzioni, si alludeva al simbolo cristiano con aratri, timoni, alberi di nave. Ma, non appena fu possibile, prese il suo posto in pubblico quella croce che addirittura da prima del 79 (distruzione di Pompei, dove il «Quadrato magico» ne è un richiamo nascosto ma preciso) era l’emblema cristiano.
Per la rivelazione vale il prendere o lasciare: a tutti piacerebbe qualcosa di, come dire?, più “simpatico” che un segno che ricorda un simile patibolo. E c’è da capire il giovane Carducci con l’invettiva a Gesù: «Ma passione e morte sono il preambolo, ciò che conta è il lieto fine, la risurrezione». La Chiesa ne è talmente consapevole che la Pasqua è il cardine dell’anno liturgico, ogni domenica non ne è che una rievocazione. E il suo cuore è l’eucaristia, vera carne e vero sangue del crocifisso sì, ma risorto. La devozione popolare? Il suo esercizio più diffuso, quello che da secoli nutre i credenti, è il rosario: 5 misteri dolorosi ma 10 tra gaudiosi e gloriosi. La cristianità conosceva la penitenza ma anche la festa; il digiuno ma anche la baldoria. La croce non è affatto, nella prospettiva cristiana, il segno di un “dolorismo”: ogni credente sa che quell’uomo tormentato poco dopo sarà glorificato. Ma sa anche che solo un Dio che ha preso su di sé un tale cumulo di dolori non è toccato dalla bestemmia dell’uomo sofferente verso Chi, creato il mondo, se ne sta impassibile sulle sue nuvole, permettendo quel male da cui Egli non è toccato.