(Mirella Pacifico de L’Eco dello Ionio) – Sentimento di fratellanza e solidarietà fra le persone e  capacità di comprendere e condividere i sentimenti degli altri. Così, tra l’altro, il dizionario della nostra lingua definisce il termine “umanità”.  Esso si inserisce, quindi, nell’essenza del nostro essere, al di là di ogni etnia, religione, nazionalità, condizione sociale e ideologia.
Compagna discreta e da tenere sempre presente nelle relazioni e nelle azioni verso gli altri, l’umanità dovrebbe essere espressa soprattutto verso le persone malate, più fragili e indifese.
Queste e i loro familiari si affidano alle cure dei sanitari in generale e dei medici in particolare, aspettandosi competenza, professionalità e… umanità, appunto. Non è scritto forse anche questo in quel “Giuramento di Ippocrate”, che ogni medico presta prima di intraprendere la sua professione e che riassume i principi deontologici ed etici a cui ispirarsi in ogni suo comportamento?
Nella mia recente esperienza di familiare di persona malata devo, purtroppo, constatare che il “Giuramento di Ippocrate” non sempre viene rispettato e che sanità spesso non fa rima con umanità.
La sanità calabrese è stata oggetto nei mesi scorsi di grande attenzione dai media nazionali per le diffuse inefficienze e i paradossi che vive. Uno scellerato progetto politico fatto, contemporaneamente, di tagli e sprechi; mancanza dei dispositivi minimi a fronte di pagamenti pazzi duplicati; assenza di personale -a volte anche per abbandoni delle corsie da parte di alcuni medici, a favore del più tranquillo lavoro negli uffici- e non conseguente programma di assunzioni, sono alcune delle concause.
I riflettori, però, non hanno modificato di una virgola il sistema: tanti  nosocomi continuano a rimanere chiusi, medici e infermieri sono sempre di meno e la nostra sanità è ancora una… sanità con la valigia, verso ospedali più efficienti, per chi può. Chi non può recarsi fuori, vuoi per condizioni economiche, o perché è solo o, ancora, per situazioni di urgenza che impongono di intervenire subito, si trova a sperimentare situazioni paradossali, come le seguenti, che si commentano da sole:

  • Ambulanze del 118 (dell’ex-Ospedale  di Cariati) solo con autista e infermiere, senza un medico;
  • Un solo medico in servizio nel Pronto soccorso di Rossano, con attese da calende greche per chi ha bisogno… di soccorso immediato;
  • Mancanza di personale medico nei reparti degli Ospedali di Rossano e Corigliano in grado di fare un ecodoppler in una giornata festiva;
  • Sette pazienti in una sola stanza nel pronto soccorso, senza finestre e con aria condizionata, in attesa di esito di tampone o di posto in reparto.
  • Trenta pazienti nel pronto soccorso di Cosenza in attesa di esito di tampone o posto in reparto, in stanzoni con letti senza le minime distanze di sicurezza, nessuna finestra, neanche qui, e aria condizionata fortissima.

Situazioni di un’attesa disumana che può durare anche giorni. Focolai veri e propri nel cuore dei presidi ospedalieri! Possono essere applicate così le rigide norme del protocollo anti-Covid 19 negli ospedali?
Tutto cambia quando si entra nei reparti. Qui non è ammesso l’ingresso a nessun familiare. Così una persona subisce un intervento serio e non viene consolata da nessun suo caro, né prima di entrare in sala operatoria,  né al suo rientro in reparto. E’ così pericoloso far entrare un familiare vaccinato, con esito negativo di tampone effettuato nelle ultime ore, per assistere chi è nello stato di debolezza più profonda? Se è giustissimo pensare alla sicurezza di tutti ed evitare gli assembramenti da visite, è altrettanto giusto che la sofferenza fisica e psicologica venga alleviata dalla carezza di una mano cara.
Nessuno accanto al letto di un malato e 67.500 spettatori ad assistere alla finale degli europei di calcio. L’insidia del Covid non è la stessa ovunque?
Si potrebbe obiettare che, comunque, negli ospedali i malati hanno tutta l’assistenza necessaria e che si può fare a meno del familiare vicino. Ahimè, non è proprio così! La carenza di infermieri è nota e i pochi presenti, quindi, non sempre possono prestare la propria opera con celerità.
Entro ancora di più nel personale. Sono stata testimone di quanto ho finora scritto e scriverò perché, come familiare di persona non autonoma dal punto di vista cognitivo, sono stata alla fine ammessa nel reparto. Come è giusto che sia, avrei dovuto esibire l’esito di un tampone recente per rimanere. Peccato che nessuno mi avesse informata! Ci ha pensato un medico a dirmelo, anzi a invitarmi a lasciare il reparto nel giro di un quarto d’ora, in mancanza. Me lo dice con tono impassibile e senza mezzi termini, ripetendo, a ogni mia giustificazione, “non sono fatti che ci riguardano”. Il suo tono, la freddezza dello sguardo, l’indifferenza davanti alla stanchezza, al disagio, alla sofferenza di una sconosciuta -quale ero io-, mi hanno procurato tanta tristezza. E amarezza. Sì, perché l’atteggiamento è cambiato immediatamente davanti a una persona che, evidentemente, si conosceva o era segnalato da amici.
E allora ho capito che niente è cambiato in Calabria e, sicuramente, non solo in Calabria. Essere servile e gentile con chi è noto e indifferente o sgarbato con chi non si conosce è provincialismo puro e a nulla valgono le conquiste del progresso, se niente cambia nelle nostre mentalità!
Come cittadini dovremmo essere seriamente indignati e pretendere un servizio sanitario di qualità, dignitoso e rispettoso dell’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio e, in quanto tale, destinatario di cure ed attenzioni. Dovremmo urlare a squarciagola finché non si ripristinano gli ospedali chiusi, non si attivano tutti i reparti, non si selezionano medici e infermieri competenti, preparati e che lavorano con le mani, la mente e il… cuore.
Il Papa, nell’Angelus di domenica scorsa, pronunciato dall’ospedale “Gemelli” di Roma, ha sottolineato la necessità dell’ascolto, della premura, della tenerezza da parte di chi si prende cura della persona malata, “come una carezza che fa stare meglio, lenisce il dolore e risolleva” ; perché tutti abbiamo bisogno di essere “unti” dalla vicinanza e dalla dolcezza e, per contro, tutti possiamo “donarla a qualcun altro, con una visita, una telefonata, una mano tesa a chi ha bisogno di aiuto.”
E allora, tra un aperitivo e l’altro, un acquisto griffato e il device tecnologicamente più avanzato, ricordiamoci delle parole del Papa e ritroviamo la nostra Umanità, anche e soprattutto, nella sanità.