(Lorenzo Castellani di Tempi) – L’ultima copertina dell’Economist è molto rappresentativa della deriva che il dibattito pubblico occidentale ha intrapreso negli ultimi anni. Il numero s’intitola The threat from the illiberal left (la minaccia della sinistra illiberale) e mette in luce le venature totalitarie che attraversano il pensiero progressista. Negli ultimi anni la sinistra si è mostrata sempre più intollerante sulle questioni etiche e sociali: aborto, genere, sessualità, storia, ambiente, scienza. Non c’è aspetto sul quale la radicalizzazione non si sia abbattuta e per la quale non vi sia stata una “lotta di civiltà” con quelle parti della popolazione che non intendevano abbracciare la verità progressista.

Linguaggio è potere
Queste battaglie, legittime in un agone politico democratico s’intenda, scontano due problemi di fondo. Il primo è che la sinistra intellettuale ha eretto una sorta di muro tra se stessa e chi la pensa in maniera diversa. Non è ammesso dialogo, riconoscimento, dibattito ma solo stigma sociale ed emarginazione per deficit di civiltà. Non viene riconosciuta alcuna legittimità agli avversari e questo rende difficile far funzionare i meccanismi democratici.
La seconda è che dalla battaglia politica si è passati prima alla manipolazione linguistica e poi all’uso del potere per imporla. La cittadella intellettuale progressista, estremamente ramificata nei media, nelle università, nelle grandi aziende, ha preteso di imporre un certo modo di parlare e comportarsi. E cerca di codificarlo in leggi, attraverso sanzioni e misure di “polizia”.

Un nuovo maccartismo
Questo approccio apre la porta a due tipiche forme della politica progressista.
Si tratta della politica della perfezione e della politica dell’uniformità; ciascuna di queste due caratteristiche senza l’altra denota uno stile differente di fare politica. Nell’atteggiamento mentale del progressista non vi è spazio per il “meglio in determinate circostanze”, ma solamente per “il meglio”, perché la funzione della ragione è appunto quella di sormontare le circostanze.
E da questa politica della perfezione scaturisce la politica dell’uniformità: una disposizione che non riconosce le circostanze non può avere spazio per la varietà. Tutti devono credere, pensare e agire secondo la regola prescritta.
Questo nuovo maccartismo da sinistra, che insegue i nemici a suon di processi mediatici e culturali nei confronti dei non allineati, produce effetti distorsivi poiché non ammette più il pluralismo e la diversità di opinioni. Al massimo, forse, tollera il silenzio e a volte nemmeno quello poiché c’è la pretesa dell’impegno su certi temi etici e sociali da parte di tutti coloro che fanno parte di una istituzione. Basti vedere quanto le aziende multinazionali e digitali puntino sulla diffusione collettiva di idee progressiste e s’impegnino per silenziare, etichettare e bannare tutti quei pensieri, parole e idee che non rientrano nella loro soglia di tollerabilità.

Chi non si adegua perde il posto
Naturalmente questo radicalismo intollerante non è equiparabile ai processi politici o ai campi di prigionia dei vecchi regimi totalitari, tuttavia le sanzioni sociali per chi in certi ambienti non si adegua a codici e linguaggi sono devastanti. Si rischia il posto di lavoro, la reputazione, la rispettabilità e il mancato riconoscimento del proprio valore. Ne risente anche la meritocrazia aperta soltanto a coloro che si adeguano alle teorie nichiliste del progressismo.
Eppure iniziano ad emergere dei paradossi inquietanti di cui anche un giornale di establishment come l’Economist inizia ad accorgersi. Dopo anni passati a denunciare il pericolo da destra delle democrazie illiberali ci si è resi conto che ad essi si contrapponeva una cultura di sinistra altrettanto intollerante. Il progressismo post-sovietico prometteva di sciogliere l’individuo da ogni vincolo tradizionale (famiglia, religione, nazione) in nome della lotta al potere patriarcale e autoritario. Solo una protezione più solida delle minoranze avrebbe garantito pluralismo, democrazia e libertà per tutti. Peccato però che questa liberazione dell’individuo sia ricaduta in un sistema poliziesco ancor peggiore di quello delle autorità tradizionali.
Chi non parla, non si comporta e non si autodisciplina nei termini prescritti va incontro alla scomunica progressista, trova la scure delle nuove leggi e dei codici etici e resta vittima dell’aggressività di chi pretende di avere una opinione pubblica omogenea. Una promessa di libertà si è trasformata in una nuova polizia del pensiero di taglio giacobino.

L’accoppiata con l’ambientalismo radicale
In Europa, dove il credo woke e il politicamente corretto non sono ancora asfissianti quanto negli Stati Uniti, si profilano altri pericoli dovuti alla tradizione statuale e politica europea. Il progressismo nel Continente può accoppiarsi più agevolmente con il socialismo, con lo scientismo e con l’ambientalismo radicale nei prossimi anni aprendo la strada a una massiccia redistribuzione del reddito, alla pianificazione “razionale”, al dirigismo e alla iper-regolamentazione. Inoltre, si rischia che anche al dibattito economico, scientifico e ambientale si applichino gli schemi illiberali della discussione sulle questioni etiche. A quel punto tutti possono diventare potenzialmente dei “negazionisti” di qualche cosa.
Gli eredi di Bagehot, i redattori dell’Economist, hanno iniziato a fiutare il pericolo. Quanto manca al passaggio dal progressismo woke al progressismo woke socialista? Sarebbe un problema per tutti i ceti dirigenti del vecchio continente oltre che per la salute della democrazia liberale. Senza una moderazione ideologica l’attuale sinistra rischia di combinare più danni della destra peggiore. Quest’ultima è un fenomeno marginale, governa in pochi paesi occidentali ed è fortemente minoritaria nei media, nelle burocrazie e nelle università. La sinistra, al contrario, è egemone in questi ambienti e il potenziale pericolo di caduta in un regime distopico e poliziesco retto dai nuovi bigotti del progresso è ancor più preoccupante.