da La Stampa (Paolo Affatato) – Al “Santuario della pace e dell’unità”, nella cittadina di Panju, sul confine tra Nord e Sud Corea, ci credono davvero. Le finestre di quello che è il complesso ecclesiale più vicino al confine, si affacciano sulla zona demilitarizzata, e la frontiera è a un passo. I sacerdoti e i laici che animano il Santuario sono in fermento per organizzare il grande pellegrinaggio e raduno giovanile che ad agosto porterà migliaia di giovani, cristiani e non, animati dal desiderio di fraternità, a invadere pacificamente la zona di confine per lanciare alle Coree e al mondo intero un appello universale di speranza, di riconciliazione e di pace, per costruire un futuro prospero e sereno.
Da alcune settimane si respira un certo entusiasmo nella società sudcoreana. Lo storico vertice di Panmunjom tra il presidente Moon Jae-in e il leader nordcoreano Kim Jong-un, seguito poi dal summit di Singapore tra Kim Jong-un e Donald Trump, ha innestato da un lato una solida fiducia al livello politico e diplomatico per la ripresa delle relazioni Nord-Sud e per la sigla di un Accordo di pace che sostituisca l’armistizio tuttora in vigore dopo la fine della guerra di Corea (1950-53). Nella società civile, tra le organizzazioni non governative, nelle comunità religiose come la Chiesa cattolica coreana, sono molti a credere che il processo di riavvicinamento sulla frontiera del 38° parallelo sia irreversibile.
Analisti politici meno entusiasti, o forse più realisti, non mancano ogni giorno di rilevare le complesse questioni geopolitiche e tutti i diversi ordini di problemi – a livello politico, diplomatico, economico, sociale o sullo standard di vita – che non sono scomparsi d’un tratto, e restano come una barriera invisibile sul confine. Molti ricordano che il processo di riavvicinamento parte dalla promessa di «denuclearizzazione»: un termine di per sè molto ampio, che implica lo smantellamento di siti nucleari al Nord, non ancora avviato.
È stata accolta, allora, come un primo vero segnale di distensione la notizia che il regime di Kim ha iniziato a smantellare il sito di lancio di satelliti di Sohae. E vanno avanti, intanto, gli incontri bilaterali tra Seul e Pyongyang, che prevedono il riallaccio di legami economici, l’organizzazione di nuovi incontri di famiglie divise (una tragedia che tocca 10 milioni di cittadini coreani), la ripresa del collegamento ferroviario e anche le relazioni religiose, come conferma a Vatican Insider il “Comitato per la riconciliazione” dell’arcidiocesi di Seul.
Il dibattito ferve sui mass media, tra il «bluff» lamentato da alcuni e le «prospettive decisamente incoraggianti» indicate dagli altri. In questo confronto, a tratti perfino acceso, Lazzaro You Heung-sik, vescovo di Daejeon e a capo della “Commissione per la società” nella Conferenza episcopale sudcoreana, mostra una “via media”, quella che è «propria di chi nutre la speranza cristiana».
«Fino allo scorso anno la penisola coreana era forse il posto più pericoloso al mondo – nota con Vatican Insider – ma, dopo i Giochi invernali e i due vertici a Panmunjom e a Singapore, si è accesa una nova speranza: chi se lo aspettava dopo 70 anni di separazione? È importante, allora, accogliere col cuore aperto i segni dei tempi», afferma. Il vescovo propone a battezzati «un nuovo atteggiamento: bisogna ascoltare attentamente cosa lo Spirito Santo vuole da noi. Come ai tempi dell’enciclica Rerum novarum, c’è qualcosa di nuovo nella storia della Corea».
«Nella penisola coreana – rileva – c’è oggi una grande opportunità per noi: viviamo un kairòs, un momento di grazia, un tempo importante. Due anni fa abbiamo vissuto il cambio di governo. Il presidente Moon ha fatto di tutto per evitare la guerra in Corea e ha creduto fortemente in un cambiamento. Nessuno ci credeva. Il desiderio diffuso al Sud è reinserire la Corea de Nord nella comunità internazionale e noi speriamo che questo processo si realizzi ben presto».
Monsignor You confida: «Io ho fiducia. In 65 anni di divisione abbiamo vissuto tanta sofferenza, quanti pregiudizi si sono sviluppati. Oggi abbiamo estremo bisogno di un nuovo cammino di dialogo, di perdono, e di riconciliazione per sanare le ferite. E ci vuole tanta pazienza. Dopo la dichiarazione bilaterale, dopo le grandi idee politiche ei grandi propositi, ci vogliono persone di buona volontà che si impegnino e metterle in atto. Questo è oggi il ruolo che può avere la comunità dei battezzati coreani: tocca a noi metterle pratica alimentando la cooperazione, il perdono, la vicinanza. Alimentando la speranza».
Il vescovo conclude: «Occorre creare in tutta la Corea del Sud una atmosfera favorevole alla riconciliazione . Bisogna costruire una cultura di pace, e il nostro ruolo è proprio quello di farla germogliare nelle coscienze. Apriamo il cuore e aiutiamo i coreani ad aprire il loro cuore. Poi si troveranno facilmente strade concrete, a livello spirituale e materiale. La preghiera è per noi un’arma potente, mentre la Caritas è pronta a restaurare i programmi di aiuto. Da ex presidente della Caritas Corea, sono stato quattro volte in Corea del Nord per seguire piani caritativi, per anziani e orfani. Come in ogni relazione umana, l’incontro personale resta determinante».