da gianlucamarletta.it – Tra le accuse spesso rivolte al Cristianesimo (e più in generale alle “religioni abramitiche”) vi è quella di aver introdotto una visione desacralizzata della Natura, esagerando in modo unilaterale la Trascendenza di Dio e soprattutto il ruolo della creatura umana rispetto agli altri aspetti della creazione. Paradossalmente, alcuni teologi moderni, partendo da una visione “secolarizzata” della religione, hanno spesso sostenuto la stessa prospettiva, ritendo al contrario un “merito” del Cristianesimo quello di aver “desacralizzato” e “profanizzato” il mondo, permettendo la nascita della prospettiva “moderna” e “scientifica” della realtà. In questo articolo, in realtà, si dimostra come la visione cristiana della natura – finché il Cristianesimo ha conservato la sua prospettiva originaria – è sempre stata una visione “sacra”: tale visione, tuttavia, si perde proprio a partire da quella crisi del Cristianesimo che è il passaggio dal Medioevo all’Età Moderna.
Scrive Mircea Eliade che “per l’uomo religioso la natura non è mai esclusivamente ‘naturale’ ma sempre ricca di significato religioso. La spiegazione sta nel fatto che il cosmo è una creazione divina. (…) il mondo è fatto in modo che, contemplandolo, l’uomo religioso scopra le molteplici forme del sacro”[1].
Questa visione sacra della natura ha però conosciuto un declino, nell’ambito del Cattolicesimo, come conseguenza di una più generale desacralizzazione avvenuta negli ultimi secoli. Eppure, una visione sacra della natura è sempre esistita nel mondo cristiano e biblico, dove per secoli la contemplazione del “Libro della Rivelazione” –le Sacre Scritture- è andata di pari passo con la contemplazione del “Libro della Creazione”. Ancora in tempi relativamente vicini, è lo stesso Galileo Galilei che si appella all’idea tradizionale e letteralmente “cattolica” – universale- dei “due libri” scritti dal medesimo Autore divino, all’atto di giustificare il suo “metodo”.
E’ un dato di fatto, tuttavia, che con la progressiva secolarizzazione del Cattolicesimo moderno questa visione sacra della natura si sia perduta (almeno in Occidente), sostituita dal paradigma profano che vedrebbe il mondo solo come realtà “mondana”. E’ così, ad esempio, che in tempi recenti teologi come Walter Kern hanno potuto persino affermare che la moderna visione profana del mondo deriverebbe dalla concezione ebraico-cristiana, che attraverso il concetto di creazione ex nihilo avrebbe demitologizzato e quindi anche mondanizzato il cosmo[2].
Questa idea, tuttavia, è in contraddizione con la millenaria riflessione sulla Natura presente fin dalle Scritture.
Già nell’Antico Testamento, pur nel quadro di un simbolismo di tipo “storico”, il cosmo non è affatto un elemento marginale. Ne fanno fede i famosi “Salmi cosmici”, in cui l’universo nella sua interezza partecipa della lode di Dio. Nella letteratura sapienziale, poi, il cosmo è visto come realtà che partecipa di Dio: Dio può essere conosciuto per analogia a partire dalla creazione[3], la conoscenza della creazione nei suoi ritmi nascosti è considerata dono della sua Sapienza[4].
Anche nel Nuovo Testamento, pur in una prospettiva “antropocentrica” – bisogna sempre tener presente che le tradizioni abramitiche si propongono, in primo luogo, come “strumenti di salvezza” per l’uomo –  la natura rientra appieno nelle attenzioni della Provvidenza divina. Gesù stesso compie molti dei suoi miracoli sugli elementi naturali[5] e nel famoso discorso sui gigli di campo[6], pur affermando il valore unico della persona umana, ribadisce la partecipazione del creato alle attenzioni divine.
Nella teologia paolina poi, troviamo il noto passo di Romani 8,19;21, dove si afferma che il destino del cosmo è di partecipare nella sua totalità alla redenzione divina[7].  Paolo, naturalmente, ribadisce sempre la centralità dell’essere umano, ma il suo non è un antropocentrismo esclusivista: per Paolo esiste un’interazione fra Dio, uomo e mondo, in cui l’uomo è l’elemento centrale attraverso il quale la realtà va redenta[8].
Queste tematiche verranno riprese dai Padri della Chiesa: per Clemente Alessandrino esiste una “simpatia” fra tutti gli esseri che fanno parte dell’”unità cosmica”[9]. Per Ireneo di Lione, il cosmo è il grande tutto tò Pan, in cui ogni aspetto interagisce con gli altri[10]. Per Evagrio Pontico, “un unico logos compenetra tutte le cose”[11].
La stessa visione sacra della natura permane anche nel Medioevo: Ildengarda di Bingen, ad esempio, ripropone una visione sacra e simbolica del creato in cui l’essere umano appare come il centro di un’armonia che promana da Dio[12]. Una teologia della natura si ritrova ancora, quasi agli albori dell’età moderna, nella scuola francescana, che sulla scia della profonda intimità con la creazione dimostrata dal suo fondatore, elabora, per l’ultima volta in Occidente, una visione dottrinale in cui il cosmo è concepito come “segno di Dio” e aiuto nella contemplazione[13].
E’ da ricordare, peraltro, che proprio la visione sacra della natura è alla base, anche nel mondo cristiano, di quelle Scienze Sacre (geografia sacra, cosmologia, astrologia – che è tutt’altra cosa da quel risibile residuo che si perpetua al giorno d’oggi) le quali partono appunto dall’assunto che il cosmo sia una manifestazione dell’Intelletto divino e che esso non sia riducibile solo al suo aspetto grossolano e “materiale”.
Con la fine del Medioevo, tuttavia, questa percezione della realtà cade nel dimenticatoio: la prospettiva sempre più individualistica, moralistica o razionalistica dominante nella teologia occidentale finisce per relegare anche la riflessione sulla natura in un cantuccio marginale. Con l’arrivo della secolarizzazione, infine, il solo parlare di visione sacra del cosmo apparirà, anche alle orecchie di molti cristiani e cattolici, nulla più che l’anacronistico ritorno ad un passato pre-scientifico.
Per tale ragione, il Cattolicesimo diviene, anche da questa prospettiva, una “tradizione monca”, esclusivamente centrata sul destino individuale e totalmente allineata al pensiero profano moderno. Si verifica, di fatto, il fenomeno paradossale di una “religiosità” che pretende di creare un rapporto tra uomo e Dio, ma che – al tempo stesso – accetta che Dio sia escluso dal mondo, giustificando questa vera e propria “arrampicata sugli specchi, con la bizzarra idea che esisterebbe una “sana secolarizzazione” diversa dal “secolarismo” e quindi conciliabile col Cristianesimo.
La visione sacra del mondo, tuttavia, sembra permanere fino al giorno d’oggi nel Cristianesimo orientale, il quale è rimasto in qualche misura preservato dalla deriva profana che ha annichilito negli ultimi secoli la religiosità occidentale.
Il pensiero cristiano-orientale, infatti, conserva a tutt’oggi una particolare “vocazione cosmica”, per la quale non solo l’uomo ma ogni aspetto del creato la dimensione cosmica assume l’aspetto e il valore di una realtà liturgica[14]. Questa caratteristica si conserva, in particolare, nella dottrina “sofiologica” russa, riflessione sulla Sapienza divina intesa come energia che pervade il creato; come scrive Pavel Evdokimov: “solo la sofiologia, gloria della teologia ortodossa attuale, solleva l’immenso problema cosmico. Essa si oppone ad ogni cosmismo agnostico, idealista, a ogni materialismo evoluzionista e vede il cosmo liturgicamente”[15].