da Il Foglio (Dario Antiseri) – La riflessione teologica si è mostrata sostanzialmente distratta nei confronti di quella fondamentale realtà del mondo moderno che è l’impresa. La situazione, però, va cambiando. Ed è merito di Giovanni Paolo II l’aver posto le basi della ricerca teologica sull’impresa.
Ai nostri giorni non mancano scritti sulla moralità del mercato. Quello di cui si avvertiva la necessità era, appunto, una vera e propria riflessione teologica sull’impresa. Ebbene, il presente lavoro di Michael Novak copre esattamente siffatta lacuna. “Come ad altri, anche a me” scrive Novak “era stato insegnato a provare un vago sentimento di disprezzo per qualsiasi cosa riguardante imprese o manager”. E con maggior esattezza: “Mi insegnarono (…) a disprezzare il capitalismo, le imprese e le attività commerciali, cose, in verità, puramente terrene. Non sono esse il Regno di Dio. (Non sono certamente il Salvatore!) Nondimeno, anche se imperfette – e qualche volta degne di biasimo – queste umili cose, spesso disprezzate e rifiutate da intellettuali e sacerdoti, si sono dimostrate notevolmente utili per il raggiungimento delle più grandi libertà e di una proprietà più ampia di quanto la gente comune non abbia mai raggiunto in qualsiasi regime alternativo”. […] Tuttavia, in scritti dei teologi contemporanei le imprese vengono considerate quali “potenze malvagie” e il capitalismo viene esecrato perché incompatibile con il cristianesimo. Si tratta di una posizione, sostiene Novak, basata su tutta una serie di fraintendimenti, anche perché “le guide spirituali e i teologi sono fra tutti i cristiani i meno adatti a discutere di questioni economiche nella società moderna”. Tali teologi e leader spirituali – fanno un uso ideologico della povertà, puntando sul fatto che nella Bibbia la povertà viene costantemente elogiata; ma, dice Novak, “una ricerca pratica e critica potrebbe suggerire che il problema più importante non è tanto la povertà, che è esistita da tempo immemorabile, ma come poter produrre la ricchezza”; – hanno un’idea di società che non corrisponde più alla società pluralista dei nostri giorni: “un moderno ordine sociale deve necessariamente considerare i capi della chiesa come esseri partecipanti a un comune dialogo, privi di qualsiasi privilegio”; – sono ingenui sul problema della redistribuzione della ricchezza: “Ancor prima che asserita, l’efficacia di un tale metodo deve essere dimostrata”; – non hanno mai raggiunto “una corretta comprensione teoretica del capitalismo democratico. ”
Solo un’analisi puntuale del flusso dei dati concernenti le imprese, per esempio negli Stati Uniti d’America, può permettere di vedere la decisiva funzione sociale dell’impresa. Impresa che nasce ad opera di un gruppo di persone, “con lo scopo d’introdurre qualche nuova idea nel mercato”. E, in realtà, il funzionamento del capitalismo democratico esige la “supremazia della intelligenza”; una grande azienda richiede grandi talenti; menti che, in un sistema pronto a premiare l’anticipazione e l’innovazione, siano all’occorrenza anche capaci di “combattere contro legioni di dubbiosi che “sanno”, attenendosi a una saggezza convenzionale, che le nuove proposte non possono funzionare”. Frequente è il caso di dirigenti d’impresa “dotati di un talento fuori dal comune”, e senza dei quali la comunità umana, nel suo complesso, sarebbe meno libera e più povera. Eppure non solo presso gli intellettuali laici ma anche nella mentalità di molte guide religiose gli industriali sono, a dir poco, dei “ladroni”.
Una teologia del capitalismo e dell’impresa è urgente, e lo è per la ragione che “incoraggiare i giovani cristiani ed ebrei a mettere il loro idealismo e il loro entusiasmo al servizio delle imprese, senza spiegare loro allo stesso tempo perché il capitalismo democratico sia teologicamente accettabile, se non augurabile, sarebbe come lasciarli con la coscienza sporca”, e con una rinforzata persuasione che la fede religiosa non avrebbe contatti o sarebbe ininfluente su scelte così decisive per tante persone. Ma così non è perché, sostiene Novak, “esiste una connessione, in teoria e in pratica, tra libertà politica, diritti umani, e capitalismo democratico”; e perché “essere al servizio dei bisogni umani, dei desiderî e degli interessi razionali vuol dire anche servire la libertà umana, la coscienza e Dio”. Agli ebrei e ai cristiani che lavorano in una grande impresa manca una teoria morale e intellettuale che: “1) esprima l’alta vocazione spirituale al cui servizio essi lavorano; 2) chiarisca gli ideali del capitalismo democratico così che essi possano valutare e migliorare la loro attuale condotta; 3) favorisca una guida concreta per le molte decisioni che devono essere prese ogni giorno”.