(Laura Fasano di Il Giorno) – Si sentiva una donna europea, libera di scegliere chi amare e chi sposare. Insomma: una di noi. Quello che fa male – tanto – di fronte alla tragica fine di Saman Abbas (la ragazza pakistana che, per chi sta indagando, è stata uccisa dalla famiglia perché rifiutava il matrimonio imposto) è che si sia ritrovata sola a fronteggiare i familiari assassini senza che nessuno abbia trovato il coraggio di aiutarla. Saman era giovane, testarda, sognava l’Occidente e il profumo della libertà, la possibilità di vivere i propri sogni. Era stufa delle limitazioni, delle reclusioni, delle liti con i genitori, di una cultura maschilista e patriarcale che la voleva costretta ad una vita di infelicita’, di ingiustizia, di privazioni e annichilamento solo perché donna. Coraggiosamente aveva deciso di scappare via, zaino in spalla. Si era rivolta a un centro antiviolenza, era stata accolta e protetta, a poi (e bisognerà chiedersi perché) era tornata dai suoi. A tanti giorni dall’inizio di questa tragica vicenda, fanno male i troppi silenzi. Azzardiamo: da un lato, la preoccupazione di scatenare reazioni razziste e, dall’altra, una manifestazione di impotenza rispetto a usi e costumi così diversi, forse considerati impossibili da integrare. Adesso,però, è tempo di reagire perché le tantissime altre Saman si sentano parte di una comunità che ha a cuore la loro indipendenza, che è pronta a difenderle e a lottare per tutte loro. Le Saman in Italia sono molte e le sfide che devono affrontare sono tutte in salita. Non possiamo far finta che questo omicidio non ci riguardi. Cosa abbiamo fatto per salvare la ragazza pakistana? Cosa ha fatto per lei la scuola? I servizi sociali? I carabinieri? Serve una cultura dei diritti e un’attenzione nuova e comunitaria che ci faccia capire per tempo chi sta male e chi è a rischio. Serve una campagna di sensibilizzazione in grado di parlare alle coscienze e di indurre a una riflessione sulla gravità di tali condotte. Saman e le ragazze come lei sono gli italiani del futuro che dobbiamo sostenere. Quello dei matrimoni combinati (o forzati) tra i membri della stessa comunità etnica, religiosa e familiare non è solo un fatto legato alle tradizioni ma nasconde un disegno politico: al centro c’è la forza di una comunità conservatrice e le donne – come sempre – sono l’oggetto della battaglia. Dietro le unioni combinate c’è la cultura di provenienza e con essa la religione, che viene usata per giustificare rapporti patriarcali e la sottomissione delle donne.Dare esclusivamente la colpa all’Islam rischia di impedire di vedere tutte le altre strutture che consentono la violenza misogina. Spostare l’asse solo ed esclusivamente sul piano del conflitto religioso, anche se costituisce un linguaggio facilmente spendibile, non aiuta a fare luce sull’esistenza, trasversale e aconfessionale, di figuri che odiano tutta quella vita che non rientra nel loro possesso. Uomini che considerano la vita della donna come un erbaccia da recintare, bruciare se sconfina nel campo del vicino, nei confronti del quale il proprio “nome” non può essere intaccato. Sono belve feroci, macchine arcaiche costruite su codici elementari e binari che vedono nella supremazia sulla donna e sulla salvaguardia del proprio nome i soli strumenti con i quali regolare i rapporti con il mondo esterno. Ahmad e lo zio che hanno strangolato Saman sono individui abietti e strutturalmente assassini che condividono la medesima anima perversa che accomuna la soldataglia che si arruola nelle file delle formazioni estremiste religiose. Farlo in nome di un Dio è etichetta utile a mascherare la ferocia assassina di scarti dell’umanità. Tragedia come quella di Saman devono rafforzare un senso critico e fornire una spinta ad operare sul versante politico con opere di prevenzione e dissuasione. A noi la scelta. Possiamo ribadire la forza dello Stato di diritto, squarciare i veli di omertà e pelosa noncuranza. Possiamo garantire alle donne che rifiutano i matrimoni combinati e superare questo pretestuoso quanto pavido senso di rispetto dell’altro. Alle Saman che vivono in Italia è necessario far sapere che le follie padronali dei loro padri, mariti, fratelli sono un arcaico laccio che una nazione deve saper tagliare. Devono avere la garanzia di essere ascoltate, credute e protette. E questi esseri, sovrani di piccoli regni familiari, vanno isolati, perseguiti e messi in condizione di non nuocere. Ecco perché ci auguriamo che il sacrificio della diciottenne pakistana risvegli nelle nostre comunità una maggiore sensibilità, un’umanita’ capace di incontrare (e aiutare) tutti. Chi ha cuore, mente e interesse verso verso gli ultimi della Terra – e le donne lo sono dappertutto, in taluni luoghi di più – non dimenticherà Saman.