da La Stampa (Gianni Valente) – Il Vescovo della Chiesa di Roma, quella «che presiede nella carità» (Sant’Ignazio di Antiochia), ha convocato a Bari i Patriarchi e i capi delle Chiese d’Oriente, invitandoli a pregare insieme per la pace in quella regione. Verranno quasi tutti, dal Papa copto Tawadros al Catholicos armeno Aram I, dal Patriarca ecumenico Bartolomeo al Metropolita Hilarion, alto rappresentante del Patriarcato di Mosca. Sarà un evento inedito, mai accaduto nella storia. Ma l’occasione non consiglia di ricorrere a toni tribunizi o trionfalisti. I capi delle Chiese, in alcune parti d’Oriente, racconteranno piuttosto come vedono assottigliarsi la presenza cristiana in terre da dove l’annuncio di Cristo si è propagato in tutto il mondo, e dove adesso il cristianesimo sembra avviato all’estinzione.
L’incontro di Bari non appare come un summit strategico congegnato scimmiottando le riunioni di vertice dei leader politici. Non si presta nemmeno a essere ridotto a una parata da jet-set clericale. Non verrà stilato nessun “documento finale”. Non ne usciranno piani elaborati di resistenza e di controffensiva. Dopo la preghiera, il confronto tra i capi delle Chiese si terrà a porte chiuse, stemperando i protagonismi. Sarà un’occasione per parlare e ascoltare, e per aiutarsi soprattutto a guardare con sguardo di fede quello che sta succedendo in Medio Oriente.
A rendere prezioso l’incontro di Bari è soprattutto la presenza di quasi tutti i Capi delle Chiese che hanno vissuto sul campo le convulsioni mediorientali degli ultimi lustri. Non rappresentano una falange compatta: tra alcuni di loro si registrano differenze non secondarie nel giudicare fatti e fenomeni del tempo presente. Ma negli ultimi anni molti di loro, quasi sempre ignorati, hanno suggerito criteri e fornito dettagli preziosi per cogliere cosa sta succedendo al Medio Oriente e ai cristiani in Medio Oriente. Fuori da luoghi comuni e operazioni politiche che in Occidente continuano a essere cuciti sulla pelle delle comunità cristiane mediorientali.
Sofferenze per tutti
I capi delle Chiese presenti in Medio Oriente tendono di solito a non isolare le sofferenze dei cristiani da quelle del resto dei popoli mediorientali. «Negli ultimi anni», ha detto il patriarca caldeo (e ora cardinale) Louis Raphael Sako, «i cristiani hanno sofferto ingiustizie, violenze e terrorismo. Ma questo è accaduto anche agli altri loro fratelli iracheni musulmani, e a quelli di altre fedi religiose. Non bisogna separare i cristiani dagli altri, perché in quel modo si alimenta la mentalità settaria». Chi tiene il lugubre conto dei battezzati uccisi nei Paesi arabi e mediorientali riconosce che negli ultimi tempi ci sono state stragi mirate di cristiani copti in Egitto, insieme a omicidi, rapimenti, assalti e distruzioni di chiese, deportazioni e fughe di massa. Ma come ha ripetuto il patriarca maronita Béchara Boutros Raï, quando c’è caos in Medio Oriente «i cristiani ci vanno di mezzo, succede sempre così. Ma non possiamo parlare di persecuzione vera e propria e sistematica, e tanto meno di genocidio… I cristiani sono vittime come tutti gli altri, e i 12 milioni di siriani che sono dovuti scappare dalle loro case non sono cristiani». E anche le atrocità dei jihadisti si sono accanite «più contro i musulmani che contro i cristiani». «Mi preoccupa», ha detto una volta Antoine Audo, vescovo caldeo di Aleppo e responsabile della Caritas in Siria, «l’uso dei casi di persecuzione come strumento di propaganda per raccogliere soldi. Come cristiani, desideriamo la giustizia per tutti, e quando ci sono persecuzioni dei cristiani, le raccontiamo. Ma non usiamo il riferimento alle sofferenze dei cristiani per accusare gli altri o per alimentare i nostri interessi. Questi fenomeni rappresentano un vero pericolo, anche per le Chiese del Medio Oriente».
Il “nemico” non è l’islam
Anche negli ultimi anni, salvo rare eccezioni, i responsabili delle comunità cristiane in Medio Oriente hanno sempre evitato di attribuire in maniera indistinta all’islam le violenze e i soprusi di cui erano vittime. La barbarie jihadista è una patologia religiosa sviluppatasi tra le comunità islamiche. Le lotte di potere, come ha detto il patriarca siro ortodosso Ignatius Aphrem II, che ha la sua sede a Damasco, si sono servite «anche di un’ideologia religiosa aberrante che dice di richiamarsi al Corano. E può farlo perché nell’islam non esiste una struttura d’autorità che abbia la forza di fornire un’interpretazione autentica del Corano e sconfessare con autorevolezza questi predicatori di odio». Ma i capi cristiani del Medio Oriente non hanno mai rinnegato la comunanza di destino che li lega alle comunità islamiche maggioritarie: «Noi – ha detto il patriarca Raï – vogliamo rimanere nella nostra terra, insieme ai musulmani, dove abbiamo vissuto insieme per 1400 anni, e vogliamo rimanerci nel nome del Vangelo. Abbiamo creato una cultura insieme, una civiltà insieme».
Diffidenze verso gli aspiranti «protettori»
Le comunità cristiane d’Oriente ripetono come un mantra che loro non sono un corpo estraneo trapiantato in quelle terre come prodotto di esportazione di altre civiltà. Continuano a riaffermare con ostinazione la propria fisionomia di Chiese nate dalla predicazione degli apostoli e quindi il proprio carattere autoctono indelebile, che in alcuni casi – come quello dei copti o degli assiri – nei primi secoli del cristianesimo li espose addirittura ai soprusi dei soldati e dei funzionari dell’Impero cristiano bizantino. I cristiani mediorientali rimangono una presenza scomoda per tutti quelli che vogliono dividere il mondo lungo le faglie etnico-religiose di veri o presunti «scontri di civiltà». Anche per questo il raduno di Bari non merita di essere ridotto a espressione di una alleanza politica tra apparati ecclesiastici per fare “fronte comune” contro qualcuno, e tanto meno ad appello per invocare protezioni e padrinaggi geo-politici dall’esterno. Nell’agosto 2016, il patriarca copto Tawadros II arrivò a prendere pubblicamente le distanze dalle manifestazioni promosse in Usa da gruppi della diaspora copta per protestare contro le violenze settarie subite dalle comunità cristiane copte in varie aree del territorio egiziano. Il Papa copto ortodosso sconfessò il vasto programma di iniziative dimostrative messe in agenda soprattutto negli Stati Uniti sotto la bandiera della “difesa” dei cristiani in Medio Oriente, affermando che: «Noi, in Egitto, sappiamo affrontare meglio i nostri problemi e i nostri contrattempi». Mentre il patriarca maronita ha ricordato che anche in passato le forme di “protettorato” esercitate da potenze occidentali verso i cristiani d’Oriente «hanno fatto più danni che bene», visto che «gli Stati fanno solo i loro interessi, e i cristiani venivano identificati come un corpo estraneo, da espellere. Mentre noi nelle nostre terre ci siamo nati, e abbiamo saputo vivere anche sotto i regimi più dittatoriali».
Il martirio sottratto alle propagande “persecuzioniste”
A Bari, alcuni patriarchi e capi delle Chiese d’Oriente avranno occasione di riproporre lo sguardo di fede che di solito testimoniano davanti alle esperienze di martirio vissute dalle loro comunità. «I nostri martiri, e l’atto del martirio in sé», disse nel dicembre 2016 il papa copto Tawadros, celebrando i funerali della strage perpetrata nella chiesa di Botrosiya, «ci uniscono al Cielo e fanno salire il nostro cuore fino a quelli che già sono lì, e da lì intercedono per noi…». «Diamo l’addio ai nostri cari con spirito di lode», aveva aggiunto il primate della Chiesa copta ortodossa, «perché crediamo che non c’è morte per coloro che amano Dio: loro saranno resuscitati nella gioia alla vita eterna».
Nell’esperienza di tanti cristiani d’Oriente, il possibile martirio non viene vissuto come un’anomalia da cancellare o una congiuntura incidentale contro cui mobilitarsi, protestare e alzare la voce. La loro stessa esistenza rappresenta un argine alle contraffazioni che pongono le sofferenze dei battezzati sotto lo stigma della paura, della rivalsa verso qualsiasi nemico. E proprio i fattori oggettivi di inermità affidata alla grazia, che connotano il vissuto di tanti cristiani mediorientali, fanno delle loro comunità un segno e una prefigurazione della condizione propria e reale della fede e della Chiesa lungo tutta la storia, fuori da ogni vittimismo e ogni patetico trionfalismo clericale.
Anche per questo – ha detto una volta Aram I, Catholicos armeno apostolico della Grande Casa di Cilicia – conviene sempre «trovare strade cristiane per esprimere la vicinanza ai cristiani del Medio Oriente. Dobbiamo evitare i due estremi. L’estremo di quelli che si agitano e dicono che bisogna fare qualcosa e andare in Medio Oriente per proteggere i cristiani. E l’estremo opposto, dell’immobilismo che diventa indifferenza. Tutti devono vedere che i cristiani nel Medio Oriente non sono lasciati soli. Che sono parte di una sola Chiesa di Cristo, fanno parte dell’unico Corpo di Cristo».