Pandemia: globalizzazione e politica
(da Avanti!) – La pandemia ci ha ricordato, se mai ce ne fosse stato bisogno, che il pianeta oggi é unito. E per di più contiene aree strettamente interdipendenti. La globalizzazione economica, sancita anche da trattati commerciali come il Wto, stanno da anni a indicarci come perfino il costo del lavoro di un paese orientale e la sua mancata sindacalizzazione incidano nel mercato globale sulla competitività dei prodotti di tutto il mondo. Oggi sappiamo che un mercato infetto in Cina, o una distrazione in un laboratorio di una sua città, possa produrre un’epidemia planetaria con costi di vite umane ed economici altissimi. E per di più fortemente squilibrati rispetto a chi quel virus ha prodotto. L’economia come la finanza non conoscono confini e le malattie come quella del Covid non sbattono sulle barriere e sui muri. Nel mondo globale solo la politica si arena in angusti confini nazionali e assume qua e là paradossalmente vocazioni nazionalistiche. Come se i problemi degli stati si potessero risolvere, penso anche al fenomeno dell’immigrazione, nei confini di casa. Servirebbe il contrario, e cioè il rilancio di un internazionalismo solidale. Un governo politico planetario, che facesse proprie le ragioni dei paesi più poveri, che ne modulasse i bisogni, che rendesse i problemi degli uni i problemi di tutti. Oggi siamo di fronte a una sorta di altruismo necessario, così é stato definito. E’ necessario pensare agli altri anche per salvare noi stessi. L’etica é condizionata dall’egoismo. Vaccinare i paesi sottosviluppati é utile ai paesi industriali per non ricadere essi stessi nell’inferno dell’epidemia. Visto che la storia dei porti chiusi non può impedire i trasferimenti, quelli regolari e anche quelli abusivi. Questo la pandemia, ma già l’economia l’aveva segnalato, ci ha insegnato. E questo settecento e più anni fa Dante Alighieri aveva ipotizzato per il mondo piccolo allora conosciuto nel suo De Monarchia. Eppure oggi non riusciamo ancora a far passare l’idea dell’europeismo. Di un vecchio continente che si deve unire per sopravvivere, dal punto di vista demografico, economico, democratico ed ecologico. La prima questione, e quella più rivoluzionaria, ci proviene ancora una volta dall’America. L’idea di Biden di togliere i brevetti ai vaccini, di internazionalizzarli dunque, é la proposta più avanzata e socialmente più apprezzabile. Se la pandemia è fenomeno mondiale, e se la vita é un diritto, le case farmaceutiche alle quali va dato il merito, ma attenzione, con stanziamenti massicci di alcuni stati, primi tra tutti gli Usa, di avere individuato un vaccino a tempo di record, non possono negarne la produzione e il consumo al mondo intero. Senza specularci e senza arricchirsi eccessivamente. Il fatto che Pfizzer abbia registrato un ricavo, nei primi tre mesi del 2021, di 3 miliardi e mezzo, e Moderna di poco meno, la dice lunga. In un’economia globale di mercato arricchirsi é lecito fino a che questo non si scontra col diritto alla vita di tutti gli esseri del pianeta. Il diritto alla vita non si compra e non si vende. Lo dicevano i latini, “Primum vivere” e poi aggiungevano “deinde filosophari” e non “lucrum facere”. Ma torniamo all’altruismo necessario. E che oggi sta trionfando. Almeno a parole, visto che una pandemia si risolve solo con una pan vaccinazione, dunque appoggiamo la proposta americana, fatta propria anche da Draghi, di poter produrre vaccini e distribuirli senza copyright. Perché é giusto, ma anche perché é necessario. Il nostro paese in particolare attraversa una fase di particolare confusione per quanto riguarda la sanità. Quello italiano, pur contando sul servizio nazionale gratuito, voluto dai socialisti nei primi anni settanta, non si é rivelato il migliore del mondo. Ha manifestato crepe per l’abbattimento dei costi e conseguente soppressione di molti ospedali e della medicina territoriale, ma anche gravi disfunzioni per la quasi completa delega alle regioni di ogni potere. Addirittura col nuovo titolo Quinto, introdotto dalla maggioranza ulivista prima delle elezioni del 2001, in una versione ultraleghista, si é proceduto a smantellare la potestà legislativa del Parlamento svilendola a materia concorrente tra Stato e regioni. La pandemia ha rivelato poi insistenti disparità funzionali da regione a regione. Le nostre proposte sono chiare. Superare l’attuale titolo Quinto, stanziare per la sanità anche le risorse del Mes, che sono oggi aggiuntive a quelle previste dal Pnrr, e riprendere la sanità, tranne che per la sua esclusiva gestione, sotto il potere statale. Infine. Quello sanitario é un sistema prevalentemente pubblico, con convenzioni con ospedali privati. La nostra proposta é che le convenzioni non possano mai superare il costo medio per paziente degli ospedali pubblici.

La questione demografica, l’Europa, l’immigrazione
I socialisti sono internazionalisti ed europeisti, anche se il socialismo italiano ha origine dal Risorgimento e i miti di Mazzini e soprattutto di Garibaldi sono costanti nella pionieristica socialista, giustamente ripresa nel Psi da Pietro Nenni e da Bettino Craxi. Un tema, oggi poco diffuso e approfondito, quasi non ci riguardasse nell’immediato, ma i socialisti in tutto il mondo si preoccupano del futuro, consiste nella questione demografica. La propongo in rapporto con l’immigrazione e l’Europa. Non l’Europa dei vincoli, che pure ci sono e vanno o rinegoziati o rispettati, ma l’Europa politica che dobbiamo costruire con un governo eletto dal Parlamento europeo, che elimini la triadicità ripetitiva e inutile di istituzioni parallele quali il Parlamento, la Commissione e il Consiglio, è la prima, vera discriminante politica oggi. Tale unità dipende dalla necessità di evitare una decadenza che potrebbe divenire inesorabile. Agli inizi del Novecento l’Europa rappresentava il 25% dell’intera popolazione mondiale, oggi siamo al 12,5%, mentre nel 2050 le previsioni parlano di solo un 7,5%. Un crollo a cui l’Italia ha dato un alto contributo. E’ stato l’ultimo paese a calare demograficamente, ma è il paese che poi è crollato di più. Complessivamente la popolazione italiana che nel 2013 era pari a circa 61milioni di unità (con un tasso di natalità pari all’8,2%, il più basso rispetto a quello della Francia, della Spagna e addirittura della stessa Grecia), si fermerà a 60milioni e 800mila. Nel 2050, con questo tasso demografico, la popolazione italiana scenderà a 56 milioni. Per questo i socialisti fanno propria la legge del governo di assegnare un assegno unico e fisso per figli nati e anche quella di farsi carico degli interessi per le coppie che intendano acquistare la prima casa. Più in generale l’Europa non contribuisce di una sola unità al fortissimo incremento della popolazione mondiale che nel Novecento era passata da 1,6miliardi a 6,5 miliardi nel 2005, con una previsione di un incremento fino a oltre 9 miliardi nel 2050. Si tratta del più forte, sostanzioso, straordinario salto della storia dell’umanità. La questione demografica deve essere al primo posto nell’agenda politica e invece quasi nessuno ne parla. Da essa dipende il livello dell’immigrazione che può essere considerata al pari dell’integrazione un fenomeno inevitabile e al tempo stesso fortemente invasivo, se l’Africa continuerà ad incrementare la sua popolazione, che ad inizio del Novecento contava circa il 9% dell’intera popolazione mondiale, e supererà nel 2050 il 22%. L’incremento e il decremento della popolazione, frutto di culture, di tradizioni, di scelte di modi di vivere, ma anche di acquisizione di minori o maggiori livelli di vita, è ad un tempo motivo e conseguenza di diversi rapporti economici. Non v’è dubbio che l’Europa perderà sempre più peso nel contesto globale. Soprattutto ora che si sta affacciando un nuovo bipolarismo, Usa-Cina. L’Europa divisa sarà ancora più debole e incapace, con nazionalismi assurdi e retrodatati, di competere economicamente e politicamente. L’Europa deve scegliere tra decadenza e unità. Si tratta dei due veri corni del dilemma. Sull’immigrazione bisogna distinguere. Vi sono migranti regolari con permesso di soggiorno, lavoro e casa che rappresentano una risorsa, vi sono rifugiati che fuggono dalle guerre e che hanno diritto d’asilo. Vi sono cosiddetti migranti economici che tentano lo sbarco attraverso l’Italia e spesso attraversandola per finire altrove e che dovrebbero essere respinti o rispediti nei paesi d’origine dopo regolare verifica e processo. Resta il fatto che, come ha giustamente ribadito il presidente del Consiglio Draghi “l’Italia ha il dovere di salvare chiunque rischi la vita in territorio italiano”. Come ho scritto più volte sul nostro Avanti noi riteniamo essenziale ribadire la priorità da un lato, di un coinvolgimento diretto dell’Europa nella gestione del flusso migratorio, superando definitivamente i dettami della Conferenza di Dublino, e dall’altro il rilancio dei patti coi paesi d’origine dei migranti, come con coraggio aveva iniziato a fare l’ex ministro Minniti, per permettere il rimpatrio degli irregolari. Infine due parole sulla migrazione islamica. Penso che la sinistra dovrebbe pretendere da loro la piena accettazione dei valori occidentali sulla famiglia, la donna, lo stato. Non cedere ad un’idea di integrazione come passiva accettazione “di un’altra cultura” (quale, una tradizione culturale opposta alla nostra non è integrabile. La si può solo tollerare creando una sorta di isola che può dilatarsi e diventare società nella società, stato nello stato). E nemmeno accettare l’idea del compromesso. Un compromesso tra libertà e oscurantismo rappresenta una retrocessione della nostra civiltà verso il passato, e soprattutto ciò equivale a rinnegare le tante battaglie sui diritti civili vinte, anche recentemente. Non possiamo accettare che in Italia si formi un’idea di famiglia di stampo arcaico e patriarcale, dove i figli devono delegare ai padri la scelta del coniuge, hanno l’obbligo di vestire seguendo le tradizioni familiari, dove è negata alle ragazze la possibilità di rifiutare il velo, di fidanzarsi o sposarsi con un non musulmano, dove verso i figli in taluni casi si vanta una sorta di diritto di vita e di morte. Non si deve accettare che in Italia si affermi una concezione della donna che non sia ispirata alla sua piena parità con l’uomo. Lo dico perché molte femministe, per motivi ideologici anti occidentali, non sviluppano una mobilitazione e una lotta senza quartiere a tutte le sopraffazioni delle donne tenute segregate e spesso maltrattate. Sarebbe anche il momento di negare la cittadinanza italiana a chi non conosce la lingua. E infine la concezione dello stato. In Italia, in Europa, in Occidente, lo stato nulla deve avere a che fare con la religione. Non è possibile prospettare la sharia, affermare il diritto della religione a dettare le regole statali, che dovrebbero riguardare tutti i cittadini, di altre religioni o di nessuna religione. L’accettazione dello stato laico e non dello stato islamico è fondamentale per ottenere la piene comunanza con la nostra democrazia. Un chiaro pronunciamento contro l’islamismo e nel contempo un appoggio alle giuste rivendicazioni del popolo curdo dovrebbero essere componenti essenziali del mosaico programmatico di una moderna sinistra riformista, ove di quando in quando prevalgono tesi falsamente pacifiste e senza nerbo democratico. E con essa il pieno appoggio agli aneliti di pace che provengono da Israele che ha il diritto ad essere riconosciuto e non aggredito quotidianamente da un territorio governato da un’organizzazione terroristica e quelli che provengono dall’Olp e dai palestinesi che rivendicano a ragione il loro diritto a creare uno stato indipendente. Con i democratici israeliani e con il popolo palestinese che rifiuta il terrorismo é collocato il nostro Psi.

La questione economica, la scuola come priorità, il Pnrr
Il mondo globale non può essere lasciato al suo destino. In questo senso tendenze puramente liberiste organizzate solo sulla base della domanda e dell’offerta rischiano di produrre guasti irreparabili. La politica deve intervenire per sancire regole, per assicurare un intervento adeguato dello stato nelle grandi questioni internazionali, deve dettare norme alla finanza che scorre libera nel mondo, ai complessi bancari che amministrano soldi dei cittadini e dalle cui decisioni dipendono i destini di larga parte dei popoli. Questo non deve comportare un ritorno ai vecchi ideologismi, alla lotta al capitalismo finanziario come fosse un nuovo mostro da abbattere. Il marxismo non è la Bibbia a cui rifarsi in ogni crisi della nostra economia. Intanto perché il profeta di Trevi non conosceva la finanziarizzazione e la globalizzazione, e dunque interpretare il tempo moderno con lenti vecchie appare di per sé fuorviante, ma anche perché tutti i sistemi collettivisti sono tragicamente crollati, mentre l’unico grande sistema formalmente comunista, quello cinese, ha scoperto, esaltato e solidificato una forma di economia di mercato ispirata al capitalismo più estremo. Eppure mai come oggi una vertenza sul lavoro in Cina o in India ci riguarda da vicino. Così come ci riguarda da vicino il progresso del paesi africani. Non c’è evento economico e sociale che non riguardi tutti gli altri paesi in cui non avviene. Per le conseguenze che genera, per le sue intrinseche  interdipendenze. L’Europa ha un solo modo per evitare la sua decadenza demografica, economica e politica: marciare spedita verso la sua unità, attraverso una confederazione o, meglio, una federazione di stati uniti, sul modello americano. Deve essere superata la visione di un’Europa unita solo da una moneta e da vincoli e infrazioni. Le politiche di bilancio pubblico indotte dal Trattato di Maastricht e dal Fiscal Compact si sono mostrate teoricamente poco fondate ed empiricamente causa, esse stesse, della grave crisi economica, sociale e finanziaria europea. I parametri di Maastricht potevano essere rivisti, lo aveva sollecitato lo stesso Bettino Craxi, alla luce della crisi economica, e soprattutto dopo quella del 2008. E’ stato stupido confondere spesa corrente e investimenti con assurdi patti di stabilità che non hanno inciso sul contenimento del debito e hanno prodotto una diminuzione del Pil. I socialisti devono impegnarsi affinché, dopo averli sospesi, tali parametri non vengano ripristinati nelle stesse forme a fine pandemia. E’ mancata la politica, la grande politica, quella che non si fa imbrigliare dai banchieri, dai finanzieri e dai poteri forti. Quella che sa difendere gli interessi dei cittadini anche scontrandosi con vincoli e regole. Che si possono sempre cambiare. Quella che non proclama la diminuzione della spesa improduttiva cambiando solo i commissari alla spending review, com’è accaduto in Italia. Oggi più che mai occorre dunque un rilancio della politica, intesa come arte massima legittimata dal voto dei popoli per definire il loro futuro. Occorre prioritariamente stabilire una comune volontà. Se vogliamo che l’Europa proceda verso la sua unità, occorre che gli stati nazionali concedano potere all’unione, che si formi un governo con un ministro dell’Economia e delle Finanze, con un ministro degli Esteri e della Difesa. In questi quattro campi l’Europa deve avere responsabilità unitarie seguendo lo stimolo che in questa direzione era stato dato dal neo presidente francese Emanuel Macron e che anche la stessa Angela Merkel pareva aver condiviso. Dovrebbero altresì nascere partiti europei. Una forza del socialismo democratico e liberale, magari unita alle forze dell’ambientalismo e a quelle di ispirazione liberaldemocratica, una forza popolare, anch’essa unita dall’ispirazione europeista, poi, dall’altra parte i sovranisti di destra o di matrice populista. Le forze europeiste, di ispirazione socialista, liberale, ambientalista e popolare dovrebbero individuare un terreno comune d’azione fondato sulla ridefinizione del welfare della nostra epoca, fondato su un nuovo rapporto tra pubblico e privato, sulla protezione dei vecchi e nuovi poveri, su una politica di sviluppo sostenibile attraverso supporti agli investimenti privati e pubblici, nel settore infrastrutturale e di difesa e valorizzazione del suolo. Il piano nazionale di ripresa e resilienza mette insieme le risorse (circa 195 miliardi) stanziate dal Recovery, più altri 30 dal piano complementare e altri 26 di risorse aggiuntive, in un battibaleno e suscitando scarsi e rassegnati contrasti. Ha perfettamente ragione il presidente di Confindustria Bonomi quando ricorda che senza un intervento radicale sulle semplificazioni (in Italia il tempo medio per realizzare un’opera pubblica supera i dieci anni, quando va bene, cioè senza procedimenti giudiziari) la realizzazione delle opere previste dal piano non sarà possibile entro la data fissata, del 2026, dal Recovery plan. Di questo pare assolutamente consapevole il presidente del Consiglio che annuncia due riforme immediate: quella della giustizia, sia civile che penale, per accorciare i tempi dei processi, quella della pubblica amministrazione per semplificare tutte le procedure amministrative, abolendo, a quanto pare, il codice degli appalti. Alle riforme si aggiungono sei missioni. La prima riguarda digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura con 50 miliardi stanziati per investire nella tecnologia pubblica e privata rilanciando “cultura e turismo”, due settori fondamentali. La seconda missione è sulla rivoluzione verde e sulla transizione ecologica e “si occupa della transizione energetica, della mobilità sostenibile, dell’agricoltura sostenibile, dell’inquinamento”: 70 i miliardi stanziati. La terza missione riguarda “una rete di infrastrutture moderna, digitale e interconnessa”, con più 31 miliardi destinati. La metà é destinata al mezzogiorno. La quarta è su istruzione e ricerca per “sostenere la sua integrazione con il sistema produttivo”, a cui vanno quasi 32 miliardi. La quinta missione è destinata alle politiche attive del lavoro e della formazione, con fondi che superano i 22 miliardi. Qui sono previste misure specifiche per il lavoro femminile e giovanile, compresa la garanzia statale sui mutui per la casa. La sesta e ultima missione riguarda la salute, con due obiettivi principali: “rafforzare la prevenzione sul territorio e digitalizzare il sistema sanitario per garantire a tutti l’accesso alle cure”. Sono stanziati per questo 26 miliardi. Si tratta di un intervento epocale, che unisce risorse europee a risorse stanziate (e generalmente non spese) del governo italiano. Da qui al 2026 trascorreremo cinque anni di corsa anche se alcune opere, come la Salerno-Reggio Calabria, ferrovia ad alta velocità, sono previste in tempi più lunghi. Saranno cinque anni fondamentali per il futuro dell’Italia e anche dell’Europa, cinque anni che potrebbero, forse dovrebbero, essere gestiti dallo stesso governo e dallo stesso presidente del Consiglio. A noi, piccoli e quasi sempre ignorati, quello di indicare un orizzonte adeguato al futuro dell’Italia. I socialisti italiani sollecitano: ad investire nella scuola la percentuale media degli investimenti europei (potremmo anche riscoprire il bonus da spendere sia nelle scuole pubbliche sia nelle private, che dovrebbe essere pari alla spesa media per studente calcolata nelle scuole pubbliche), a investire nel campo della ricerca attraendo sull’italia le migliori energie scientifiche italiane ogg costrette a lavorare all’estero), a puntare sul made in Italy, Un grande investimento a supporto della qualità, differenziato, frutto di scelte mirate, per sviluppare l’economia che ha un futuro, quella delle tecnologie avanzate e delle energie alternative. Occorrono progetti, non idee improvvisate. Se si propone di tassare e eredità milionarie, come avviene tutta Europa, noi socialisti dobbiamo essere favorevoli. Ma immaginare una quota annua di decessi adeguata a finanziare i diciottenni appare anche un po’ grottesco. Si finisce per fare conti a vanvera. E a favorire qualche migliaia di corna.

La questione democratica, le nostre idee per la riforma
Il potere della rete esplode proprio contro qualsiasi altra manifestazione di potere. Non ha rappresentanti, ma è esso stesso rappresentante di sentimenti, risentimenti, amori e odi, spesso di rivendicazioni le più varie. Si sviluppa sulla base del potere assoluto dell’eguaglianza senza il riconoscimento della competenza e meno che meno dell’esperienza. Oggi pare che anche questa errata consapevolezza finalmente vacilli. Il confronto sulla rete implica sempre l’esistenza di un colpevole, che da qualche anno in qua, va innanzitutto ricercato nella politica, nel governo, nel Parlamento, nei loro privilegi e nella esistenza di una casta, dal famoso e redditizio libro di Grillo e Stella. Esiste oggi un’emergenza democratica. Questa emergenza si é diffusa nel mondo, tanto da far divenire la democrazia stessa un possibile bersaglio. Una parte consistente del pianeta é retta tuttora da regimi dittatoriali o autoritari. Evidente che se la Cina é un paese dittatoriale, perché esiste un solo partito, da decenni al potere, non si svolgono regolari elezioni e si incarcerano i dissidenti, la Russia, la Turchia, i paesi arabi, sono retti su “democrature”, come si diceva una volta, cioè su sistemi falsamente democratici, che prevedono più o meno libere elezioni, ma non il rispetto per le minoranze, anzi la loro persecuzione. Se ci pensiamo bene si tratta di un sistema in pericoloso avanzamento. E che in qualche forma, magari più edulcorata, sta prendendo piede anche in Europa, vedi l’Ungheria di Orban e non solo. In Italia questa malata concezione della democrazia é stata fatta propria dai Cinque stelle, nati col proposito di purificare la politica, perché quella precedente il loro avvento era considerata malata, tossica, infetta, e poi con l’obiettivo di contestare la democrazia rappresentativa, anche se oggi alle prese con le loro divisioni (quella clamorosa tra Grillo e Conte, il genitore assoluto e il figlio adottivo) e con le loro evidenti contraddizioni (sono nati col proposito di non allearsi con nessuno e si sono alleati con tutti, promuovendo a loro leader chi ha presieduto, con un’indifferenza ultra andreottiana, due governi di segno opposto). Hanno vaticinato il loro “uno vale uno” e sono caduti per impreparazione e imperizia scontrandosi con il valore del merito, hanno vantato la loro indifferenza agli incarichi e oggi stanno combattendo per il terzo mandato. In generale sta emergendo una tendenza, alla luce della crisi sanitaria ed economica che ha colpito il mondo intero tranne il paese che l’ha generata, di considerare la democrazia una sorta di intralcio. In fondo il modello cinese, con una semplice aristocrazia politica al potere, una velocità delle decisioni, una puntuale applicazione delle stesse, tipiche di regimi che non devono discutere, litigare, fronteggiarsi con le opposizioni in liberi Parlamenti e in istituzioni con contrappesi propri delle società democratiche, ha saputo alimentare il più alto sviluppo della storia in cosi poco tempo e per di più sconfiggere il virus per primo producendo l’unico Pil in attivo tra le grandi potenze. E oggi quel modello può consentire ai cinesi di diventare padroni della metà del debito americano, di mezza Africa, e di molti settori produttivi e infrastrutture europee. Il fascino di quel modello sta diventando un pericolo per le democrazie occidentali, ancor oggi sotto il mirino del fanatismo islamista e delle teocrazie mediorientali. Reggerà la democrazia? Questa la domanda inquietante che la stessa Oriana Fallaci si era posta nei suoi libri a fronte dell’avanzata del fanatismo. Reggerà a fronte del più pacifico e per questo più attraente sviluppo del modello cinese e dell’espansione di tanti sistemi autoritari che stanno facendo il bello e il cattivo tempo, come la Russia e la Turchia, nel mediterraneo? E’ evidente che proposito dei socialisti sia difendere, ma riformandola, la democrazia rappresentativa e non sostituirla, ma solo parzialmente abbinarla, con la democrazia diretta. Quest’ultima va rilanciata sotto la forma di modifiche costituzionali che permettano non solo referendum abrogativi ma anche propositivi. La riforma che i socialisti avanzano è innanzitutto fondata sulla priorità di scelta sullo stato. In Italia é stato fatto il contrario. Prima si é pensato alla riforma elettorale, cambiata ben quattro volte in vent’anni se vi includiamo anche la nuova legge con sbarramento per le Europee, maggioritaria con recupero proporzionale di un quarto, poi proporzionale con premio di maggioranza alla prima coalizione, poi proporzionale con un terzo di maggioritario senza premio di maggioranza. Il tutto promosso esclusivamente ai fini di un supposto vantaggio di una coalizione poi paradossalmente trasformato in vantaggio per la coalizione avversaria. Evidente che la legge elettorale debba essere considerata la conseguenza del tipo di stato che vogliamo edificare. Se vogliamo costruire uno stato presidenziale o semipresidenziale sul modello francese la legge elettorale non può che essere maggioritaria a uno o due turni, se invece vogliamo mantenere un assetto parlamentare, o con il cancellierato alla tedesca o con un presidente del Consiglio designato dal presidente della Repubblica, allora il metodo proporzionale con o senza sbarramento é quello migliore. I socialisti avanzano una questione di metodo e rilanciano la proposta dell’elezione di una Assemblea costituente eletta col metodo proporzionale per le decisioni da intraprendere. La seconda emergenza che i socialisti segnalano riguarda la giustizia. La crisi di fiducia nella magistratura sfiora quella nei partiti politici. Il recente libro d Sallusti e Palamara rilancia l’urgenza di un riforma organica nel sistema giudiziario. I socialisti, promotori coi radicali, del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati del 1987, poi sfociato in una legge inutile votata allora dal Parlamento, ne rilanciano oggi l’urgenza. E così pure insistono sulla necessità di una legge che sancisca la separazione delle carriere della magistratura inquirente e di quella giudicante, come avviene in tutto il mondo democratico. Condivide peraltro l’urgenza di accorciare la durata dei processi, come raccomandato dalla Commissione europea e ritenuta condizione essenziale per la concessione delle risorse del Recovery fund. E ritiene ormai improrogabile assieme a una riforma del sistema del custodia cautelare, anche una cambio sostanziale delle regole per l’elezione del Consiglio superiore della magistratura. L’unico modo per colpire il sistema delle correnti politiche nella magistratura, che finisce per lottizzare le nomine dei procuratori e le loro carriere, per nominare le varie commissioni e definire le varie prebende, é quello del sorteggio. Per questo il Psi aderisce alla raccolta di firma lanciata dai Partito radicale e dalla Lega, salutando con soddisfazione la collocazione nel fronte garantista di un partito un tempo attestato sulla pericolosa retorica del Cappio. Infine una terza questione non più rinviabile riguarda la legge sui partiti politici prevista dall’articolo 49 della Costituzione come soggetti “democratici”. Su questo va ripreso il testo presentato al Senato da Enrico Buemi. La terza emergenza riguarda, ancora, le leggi sui diritti civili. Il Psi si impegna a lanciare la nuova associazione Loris Fortuna, aperta a tutti coloro che intendano rinnovare le istanze portate avanti dall’illustre esponente socialista. Oggi, aderendo, come ha fatto il segretario del Psi Vincenzo Maraio, al referendum sul fine vita, mentre per quanto riguarda il Ddl Zan mantengo riserve personali sugli articoli 4 e 7 ma qui mi fermo.

La questione ecologica, l’origine della pandemia, il clima, i rifiuti e altro
La pandemia, se mai ce ne fosse stato bisogno, ha rilanciato nel mondo intero il tema dell’ecologia, di un diverso assetto dell’economia (la green economy), di un rispetto dell’ecosistema e delle biodiversità. Evidente che questa e altre epidemie che si trasferiscono dall’animale all’uomo siano causate dalla distruzione totale di tanti e diversi habitat in cui precedentemente vivevano queste speci causandone un’emigrazione e un trasferimento a contatto con esseri umani sprovvisti delle difese immunitarie necessarie, alle prese come sono con virus sconosciuti. I socialisti ritengono di conseguenza necessario da un lato ripristinare aree (verdi, foreste, boschi) in cui gli animali possano vivere e dall’altro cambiare il nostro stile di vita e financo le nostre abitudini alimentari. Da quel che si può desumere da questa epidemia noi non possiamo far finta che noi sia mai avvenuta, una volta scomparsa. Una diversa sensibilità ambientale é oggi non solo possibile ma necessaria. Le scelte alimentari, dei trasporti, dei vestiti, della cura della persona e delle casa sono decisive per determinare la nostra impronta sulla natura. Su questi quattro ambiti abbiamo pieno potere e le nostre scelte possono incidere per attuare cambiamento duraturo. Dall’altra parte le istituzioni collettive giocano un ruolo determinante, naturalmente le istituzioni pubbliche ma anche i movimenti collettivi dal basso. Tutte le questioni ecologiche sono un campo di battaglia, e le forze in campo devono far sentire le proprie ragioni. L’emergenza ecologica ha investito il pianeta e in parte non trascurabile il nostro paese. Ormai è evidente che lo sviluppo non può compromettere l’ambiente perché toglie futuro alle generazioni successive e perché l’ambiente è esso stesso fonte di sviluppo. La globalizzazione è anche ambientale, non solo perché lo sviluppo deve partorire un ambiente a misura d’uomo, ma perché ogni fenomeno di distruzione e di inquinamento, lo stesso cambiamento climatico, non conoscono barriere e dogane. Non conoscono dazi. Non conoscono differenze di reddito. Anzi unificano categorie sociali. La difesa dell’ambiente è interclassista, perché tutti ne possono trarre vantaggi o subire danni. E’ un’esigenza generosa che non guarda solo al presente, ma lavora per garantire un futuro a chi verrà dopo di noi. E protegge costoro già prima che nascano. Non lascia debito da pagare, ma contribuisce a eliminarlo perché i posteri non debbano farsene carico. Sul piano dei principi si possono raccogliere tre coordinate: il passaggio dalla coscienza di classe alla coscienza di specie, così suggellando l’evoluzione della sinistra sul terreno riformista e liberale, come orizzonte dell’umanità tutta, alle prese con fenomeni globali di invasione, di crisi, di deterioramento pur mantenendo la percezione di un senso collettivo di appartenenza. Poi l’approdo al senso etico di un equilibrio tra diritto all’ambiente e dell’ambiente. Cioè tra un ambiente a misura dell’uomo e un ambiente da tutelare in quanto tale, spesso anche dalle follie dell’uomo. Infine una diversa concezione della crescita, cui occorre sovrapporre il termine “sviluppo”, cioè dell’ecologia intesa come economia della natura e della natura intesa come ecologia umana. Un’industria ecologica è oggi in grado di produrre reddito e lavoro salvaguardando il territorio. Inutile nascondere che in Italia, contrariamente a quanto avviene in paesi a noi vicini, il movimento politico ambientalista, che prese nome “I verdi”, esploso alla metà degli anni ottanta ed entrato in Parlamento con una forza impensabile a partire dal 1987, e che nel 1992 si presentò addirittura con due liste elettorali, è quasi scomparso, anche se recentemente segnala timidi accenni di rinascita. Questo è avvenuto per errori di leadership e per una scelta politica di confondere ambientalismo ed estremismo politico. Tuttavia emerge sempre più fondamentale l’esigenza di costruire un luogo politico dove si possano incontrare, discutere, dove possano intervenire associazioni ambientaliste e singole personalità della cultura, della tecnica, dell’associazionismo e del volontariato che ritengono essenziale riproporre in termini politici la questione ambientale. E innanzitutto, dunque, il problema del clima che sta dividendo il mondo, anche se paradossalmente lo unisce. L’accordo sul clima di Parigi va rispettato. La popolazione americana non può essere insensibile al futuro dell’umanità, come aveva di fatto sostenuto Trump, che è poi il suo stesso futuro. L’Italia si è impegnata a partecipare attivamente alla realizzazione degli accordi di Parigi attraverso un Piano d’azione nazionale su clima ed energia. Ma in questo momento gli impegni dalla UE nel suo insieme, e anche dell’Italia, sono insufficienti a garantire che l’Europa faccia la sua parte nel limitare l’aumento del riscaldamento globale entro 2 gradi e se possibile entro 1,5 gradi.  E’evidente che per raggiungere gli obiettivi vincolanti di Parigi occorre una  nuova politica energetica anche in Europa e in Italia. Occorrono scelte volte alla riduzione del Co2 attraverso la decarbonizzazione e il progressivo abbandono delle fonti fossili. Tutto questo certo va praticato con equilibrio e giusta ponderazione. Al di fuori di massimalismi e pressapochismi che ritengono che le energie alternative siano oggi, da subito, in grado di sostituire le fonti energetiche tradizionali. L’Italia ha scelto alla fine degli anni ottanta di non entrare nel nucleare. Oggi ne paghiamo un prezzo molto alto anche in termini di riduzione delle energie fossili, ma anche in termini economici. Resta tuttavia alta la preoccupazione che spinse a una decisione, non isolata in Europa, e cioè lo smaltimento dei rifiuti nucleari che si configura come un lascito alle generazioni future di dubbia generosità. Se non vogliamo entrare nel nucleare serve una vera rivoluzione energetica. Occorre puntare davvero sulle energie rinnovabili attraverso un graduale processo che ne aumenti la presenza in percentuale, sulla efficienza energetica, su un piano per rendere gli edifici a basso consumo energetico. La politica sulla messa in sicurezza degli edifici deve essere centrale. Occorre renderli antismici, soprattutto  in Italia, alle prese come siamo stati,  anche recentemente, con eventi che hanno seminato distruzione e morte. Gli interventi volti a fronteggiare il rischio sismico vanno coniugati con un grande e quanto mai necessario intervento per la contrastare il rischio idrogeologico. Rendere il nostro Paese più sicuro attraverso  il lancio di un grande piano pubblico ed eventualmente privato per fare dell’Italia un paese dove vivere più sicuri è oggi un imperativo per un moderno riformismo. Un moderno riformismo ecologico non confligge con le infrastrutture, anzi. Strade, autostrade e ferrovie, se evitano passaggi nei centri abitati, e contemporaneamente avvicinano i territori, portano utili contributi ambientali. Non abbiamo saputo lanciare, lo stanno facendo giapponesi e cinesi, l’industria dell’auto elettrica, creando la filiera dell’auto pulita e conseguenti politiche di incentivazione e di detrazione fiscale, non abbiamo risolto in molte zone del paese e soprattutto del sud, il problema dei rifiuti, che ha paralizzato intere città condizionate dalla malavita e dalla criminalità mafiosa. Il ritardo sulla raccolta differenziata e sul riuso e soprattutto il forte e doloroso divario da città a città, rende l’Italia, più che un sistema, un sistema di sistemi, contraddittorio e preoccupante. La battaglia agli inceneritori e alle discariche va fatta solo per individuare impianti più moderni tecnologicamente e a zero impatto ambientale. Non per favorire il disordine e garantire gruppi di potere che speculano sui rifiuti facendone un occasione di illegittimo profitto. Non voglio dimenticare temi quali i nuovi progetti per un’agricoltura di qualità oggi in grado di appassionare in un nuovo percorso di lavoro settori rilevanti delle giovani generazioni, né il necessario e più costante controllo sull’alimentazione, cui si associa una sempre più marcata attenzione e sensibilità dei singoli, la necessità di non stravolgere, proprio ora che l’enciclica di Papa Francesco richiama uomini e governi ai loro doveri a favore dell’ambiente, i nostri 23 bellissimi Parchi nazionali e Aree marine protette (occorre, anzi, prevederne dei nuovi, stanziando risorse adeguate per la loro gestione e definizione) o, infine, l’attenzione verso gli animali, i loro diritti, la loro funzione sociale e ambientale. Non partiamo da zero: l’Italia è la seconda Green economy dopo la Germania e il suo valore corrisponde a 190 miliardi di euro, il 13% dell’economia nazionale. È il primo paese per contributo del fotovoltaico al mix elettrico nazionale (8%). Il suo sistema economico è il secondo per minore intensità di emissioni dopo la Francia (senza il nucleare). E’ leader europeo nel riciclo industriale e nell’economia circolare: questa è una forza da valorizzare con misure adeguate. Di tutto questo occorre che la politica si accorga.

I principi di un moderno socialismo liberale
Toneranno di moda le identità? Verranno superati i partiti personali, quelli che presentano un uomo solo al comando o quelli che non si rifanno ad alcuna storia o a storie concorrenti in tutta Europa? Oggi sia Carlo Calenda che Mario Draghi si definiscono socialisti liberali, mentre il Pd appartiene alla famiglia del socialismo europeo e le formazioni collocate alla sua sinistra rilanciano una prospettiva legata al socialismo. Eppure, in Italia, tranne il nostro, non c’è un partito che si definisce socialista. Perché? Perché, come disse D’Alema nel 1993, “il termine socialista é divenuto impronunciabile”? Forse per molti lo é ancora. La falsa rivoluzione giudiziaria ha provocato il ribaltamento delle ragioni e dei torti del 1989 e il muro di Berlino é caduto così dalla parte sbagliata. Oggi permane il cosiddetto nuovo fattore S nella politica italiana, che significa demonizzazione o almeno rimozione della nostra storia. Dunque la questione del nome per noi diventa pregiudiziale, perché significa il mantenimento o il superamento di questa pregiudiziale. Si può ben dire oggi, ribaltando il vecchio detto latino, che “res sunt consequentia nomina”. E cioè che i nomi diventano conseguenza delle scelte politiche. Ma veniamo all’aggettivo. Liberale é la definizione del socialismo rosselliano, il primo in Italia che, col famoso scritto “Il socialismo liberale”, edito a Parigi nel 1930, individuava già in Marx, lo aveva già fatto Bernstein, le premesse per l’evoluzione autoritaria del socialismo. Rosselli portò nella teoria intuizioni, mai rivelate, ma pur tuttavia esistenti, del riformismo turatiano meno propenso a un distacco dai sacri testi ma spesso orientato a giustificare le sue tendenze democratiche riferendosi all’elaborazione dell’ultimo Hengels. Il socialismo liberale di Rosselli era tutt’altro che moderato, anzi nella guerra al nazifascismo sposò allora le scelte più estreme col movimento Giustizia e libertà e per questo ne rimase vittima. E non va confuso col liberalismo elitario a cavallo dei due secoli né coi partiti liberali europei del dopoguerra. Era la certificata sintesi di Saragat del 1946 e di Nenni a seguito dell’invasione dell’Ungheria, dieci anni dopo, e cioè che non vi può essere socialismo senza libertà. E che il socialismo o contiene in sé il germe liberale o é destinato a sconfinare nel dispotismo. Queste idee, in ben altro contesto, il vecchio Psi ebbe il coraggio di rilanciare negli anni ottanta, con la politica del Lib-Lab assumendo la tesi secondo la quale non esisteva differenza insormontabile tra un liberalismo a sfondo sociale e un socialismo con cultura liberale. Il revisionismo socialista, quello riformista nella pratica e quello liberale nella teoria, é in fondo l’unico che salva dal fallimento e dalle tragedie una nobile identità spesso deturpata. Oggi tutto questo é ancora attuale? Oggi che siamo di fronte a una globalizzazione che se pur ha attenuato le differenze storiche tra aree geografiche del pianeta, le ha accentuate nei paesi europei e occidentali, dove i ricchi sono diventati più ricchi e i poveri più poveri? Dove il lavoro sfugge e viene sostituito da nuove tecnologie e dove i giovani si trovano di fronte a un futuro di ombre e di incertezze? Oggi che il welfare tradizionale é supportato da ingenti indebitamenti e i vincoli europei, solo sospesi di fronte alla pandemia, appaiono sempre più gabbie insopportabili? Penso che la risposta a tutto questo non possa essere un ritorno al passato. Una riscoperta di fallaci dogmatismi in salsa marxista o addirittura leninista, una politica di nazionalizzazioni, il trionfo del pubblico sul privato. Il tema di fondo resta, soprattutto per l’Italia, quello di favorire la crescita, praticamente bloccata da quasi trent’anni a causa di una classe dirigente incapace di far valere nel contesto europeo le proprie ragioni e di insistere con una politica di investimenti bloccata da assurdi patti di stabilità, ma anche dal potere di una burocrazia e di una magistratura soverchianti, nonché da una sostanziale incapacità di tagliare la spesa improduttiva, ma solo i commissari ad essa preposti. Certo non una crescita qualsiasi, ma uno sviluppo nuovo, basato soprattutto sulla green economy e sull’espansione dell’occupazione. Il Psi facendo propria la duplice eresia riformista e liberale intende mettere in discussione le forme facendo uso soltanto dell’interesse dei cittadini. Alitalia é pubblica, ma è un pozzo di San Patrizio per lo stato. La Fiat é privata ma non lo é stata di meno per sovvenzioni statali e rottamazioni largamente a carico statale. Non può esistere un pubblico sempre meglio del privato e viceversa. Le privatizzazioni degli anni novanta sono state spesso un regalo a gruppi di potere che controllavano altre imprese e anche importanti fette di informazione. Le privatizzazioni telefoniche hanno invece consentito all’utente un risparmio notevole per la legge della concorrenza. Le multiutility che gestiscono con maggioranze azionarie pubbliche acqua, luce, gas, sono sempre la migliore risposta in un regime di monopolio nel quale agiscono? E’ interesse dei cittadini che si eviti la concorrenza che potrebbe abbassare i costi delle bollette ? Questo riguarda in genere anche tutto il sistema dei servizi. Quello che importa non é più la forma, pubblica o privata, ma la qualità e il costo. Come nella sanità nelle convenzioni coi privati le prestazioni non possono derogare dalla spesa media nella sanità pubblica, questo deve valere per qualsiasi altro servizio. Allo stato e alle sue istituzioni resti il governo, cioè la dimensione degli orientamenti generali e della regole, anche quando i servizi sono gestiti dai privati. E questo timone deve essere ben diretto, con coerenza e senza tentennamenti. L’intreccio tra pubblico e privato é l’unica risposta concreta ed efficace alla crisi finanziaria dello stato, che non sarà a costo zero a seguito della pandemia. In Italia si é ormai superato il 160% del Pil, più o meno la stessa cifra che si contava nel 1922 alla vigilia della marcia su Roma. Chi pagherà questo gigantesco debito, se non riusciremo a rimettere in moto lo sviluppo? Chi ci permetterà di mantenere gli attuali livelli dei servizi e di superare quel gap negativo che già prima della pandemia segnalava l’Italia come la Cenerentola dell’Europa tutta? In un’economia di mercato il socialismo perde la sua vecchia e obsoleta natura statalista e acquista la funzione di soggetto regolatore, che non si rassegna ad accettare i meccanismi insiti nel mercato, ma li modula e li orienta a vantaggio della comunità. Cosa mai era la pianificazione che era stata messa alla base della partecipazione del Psi al governo nei primi anni sessanta, e cos’altro era quell’alleanza tra meriti e bisogni di cui parlò la conferenza di Rimini del 1982? Povertà, peraltro, che rispetto agli anni ottanta, che noi definimmo nuove, sono tornate quelli di un tempo. La nuova povertà é tornata vecchia, insomma. Il problema é che non si possono affrontare vecchi problemi con vecchie ricette. Peraltro abbondantemente fallite. Il superamento del mercato ha generato un sistema nazionalizzato che ha prodotto povertà oltre che assolutismo, un mercato senza vincoli genera oggi palesi, inaccettabili ingiustizie e insopportabili disuguaglianze. Solo una ricetta ispirata ai principi del socialismo liberale, che non mortifica, ma sollecita l’iniziativa privata, accentua i meriti di una necessaria nuova creatività degli individui, assegna regole per limare le differenze, si fa carico dei più deboli anche a spese dei più forti, assicura oggi un avvenire di fiducia alle nuove generazioni. Vedremo se e come contribuire a organizzare un’area liberalsocialista. La luce dopo il grande buio si può riaccendere solo con un ritorno in campo della grande politica e in essa di un forte soggetto ispirato ai nobili principi del socialismo liberale che anche nel duemila appare quello più attuale per interpretare la realtà e rispondere ai nuovi grandi problemi dell’umanità.