bergoglio_banchedi Francesco Pacifico – Nella svolta pauperistica di papa Francesco le banche sono il demonio.
“Il salvataggio a ogni costo delle banche è stato fatto pagare alla popolazione. Oggi non facciamo pagare ai popoli il prezzo della crescita ad ogni costo – ha scritto il pontefice nell’Enciclica Laudato Si -. Rallentiamo il passo perché la finanza soffoca l’economia reale. Il mercato da solo non garantisce lo sviluppo umano integrale e l’inclusione sociale”. Ma a ben guardare i concetti espressi da Jorge Mario Bergoglio non sono nuovi in Vaticano. Già il suo predecessore, Joseph Ratzinger, si era scagliato prima delle dimissioni contro il “capitalismo finanziario sregolato” quale principale “minaccia per il raggiungimento del bene comune”, ma adesso Bergoglio fa un passo avanti e scomunica il capitalismo e il liberismo, facendoli rientrare nel peggiore peccato ontologico dell’era moderna: il relativismo. Le parole pronunciate da Francesco sono state ascoltate (e meditate) con molta attenzione nel Torrione Niccolò V, sede dello Ior. L’Istituto delle opere religiose che il pontefice vuole riportare al ruolo di mero finanziatore delle attività di assistenza e di proselitismo, facendo dell’Aspsa la vera banca centrale dello Stato Vaticano. Il salvataggio a ogni costo delle banche fatto pagare alla popolazione riapre un’altra battaglia di Benedetto XVI, la riforma della banca vaticana. Sulla quale l’attuale pontefice sta trovando non poche resistenze. Non fosse altro perché, come ha dichiarato l’ex presidente Ettore Gotti Tedeschi, è partendo dalla guerra tra Ratzinger (che su quella poltrona mise Ernst von Freyberg) e il cardinal Tarcisio Bertone (che avrebbe preferito il belga Bernard De Corte) che si trova la motivazione che ha portato alle dimissioni del tedesco. La “Banca di Dio” è stata negli ultimi 40 anni l’epicentro di tutti i principali scandali finanziari, lavorando come “lavatrice” di denaro sporco sia per politici e industriali corrotti che per le organizzazioni criminali. E tanto basta per capire che il papa, che accusa di fatto i governi di aver affamato i loro cittadini per aver introdotto utili soltanto a rifinanziare i capitali degli istituti di credito, non può permettersi una struttura così poco trasparente. Dall’arrivo di Francesco molte cose sono cambiate al Torrione Niccolò V. Infatti si presentò sul versante finanziario imponendo per sei settimane il congelamento di tutte le carte di credito e le transazioni Atm all’interno della Città del Vaticano per aggiornare e adeguare le norme di trasparenza fin a quel momento vigenti oltre Tevere. Soprattutto, Bergoglio è riuscito dove fallì Ratzinger: dare piena copertura all’Aif, l’Autorità di informazione finanziaria vaticana, per fare pulizia. In un anno sono stati chiusi oltre 4.000 conti sospetti, intestati a “persone che non avevano diritto a servirsi della banca vaticana”, per usare le parole del papa. Precisamente 2.600 erano conti “dormienti”, 554 rapporti che non rientravano nelle categorie autorizzate (i conti cosiddetti “laici”) e 1.460 sono decaduti per naturale estinzione. I clienti sono scesi a 15.181 dai quasi 18 mila precedenti all’era degli scandali, con il risultato che quest’opera di ripulitura aveva portato un utile netto di 69,3 milioni contro i 2,9 del 2013. Quando la strada sembrava invertita, ecco che Bergoglio si è ritrovato sul suo tavolo – come denunciato dal Sole24Ore – la richiesta da parte dello Ior di costituire una Sicav, fondo di investimento a capitale variabile, in Lussemburgo. Richiesta che il papa ha immediatamente bocciato, visto che dal primo momento aveva chiesto all’istituto di abbandonare le alchimie finanziarie e le velleità di investment bank. Bergoglio ha preferito evitare fragorosi strappi come in passato. Ma c’è chi ha visto in questa scelta il tentativo di ricreare quel Fondo sovrano vaticano, che aiuterebbe non poco una Santa Sede sempre più bisognosa di risorse, visto l’impegno ai quattro angoli del mondo. Senza contare che – non soltanto in termini fiscali – renderebbe più facile la gestione di fondi che a fine 2013 ammontavano a circa 6 miliardi e la valorizzazione di capitale di 720 milioni. Questa nuova missione della “Banca di Dio”, benedetta da Bankitalia, non piacerebbe poi ad alcuni istituti italiani. Non è un mistero che l’ex dominus dello Ior, Angelo Caloia, aveva uno stretto rapporto con il presidente del Consiglio di sorveglianza di Intesa Sanpaolo, Giovanni Bazoli.
Il quale vedrebbe in uno Ior maggiormente attivo dal punto di vista finanziario un baluardo in più per la finanza bianca, di cui resta il massimo esponente.