(Lia Quartapelle di Huffington Post) – Il crimine di cui è stata vittima Saman Abbas è qualcosa di orrendo, frutto di una mentalità patriarcale e fondamentalista.
No, non basta dire che anche in Italia ci sono i femminicidi, e che anche in Italia c’è stata Franca Viola (e suo padre, che l’ha aiutata e sostenuta nella denuncia).
Il crimine di cui è stata vittima Saman è un femminicidio, frutto di una mentalità patriarcale che è trasversale alle culture. Ma è anche il frutto di un contesto culturale specifico – parlo di cultura e non solo di religione, perché c’è una cultura, una identità di una comunità intorno a questo omicidio, come ha spiegato il vice presidente dell’associazione giovani pakistani Usama Sikandar in una intervista a Repubblica.
Se non inquadriamo il fenomeno nella sua complessità, non saremo in grado di aiutare le ragazze come Saman, come Hina Ahmed e come Sanaa Cheema prima di lei. Perché nella storia di Saman non c’è solo un uomo che uccide una donna, c’è una famiglia che compie un femminicidio (c’è una madre e un padre, ci sono gli zii e i cugini). C’è la pressione del paese e della comunità di origine dove i genitori trovano rifugio dopo il crimine, dove sono accolti senza nessuna sanzione nonostante siano i mandati di un omicidio orrendo.
E oltre a questo contesto oscuro, nella stessa comunità, c’è anche un fidanzato, che cerca di stare a fianco a Saman e c’è un fratello minorenne che testimonia.
Lo sappiamo: l’incontro, la convivenza tra le culture, l’accoglienza non sono un processo semplice e pacifico. Generano conflitti, incomprensioni, difficoltà. Per chi era già in Italia, che deve fare spazio a nuovi modi di vivere, e per chi è arrivato, che deve prendere le misure con il nuovo contesto e trovare un proprio spazio. Per chi nasce in Italia da genitori immigrati, e si trova diviso tra famiglia di appartenenza e la cultura così diversa che incontra appena fuori la porta di casa. Di questo incontro tra culture, dei conflitti che emergono, bisogna parlare.
Bisogna parlare del fatto che quando alcune culture tradizionali incontrano un contesto più laico e aperto possono nascere reazioni folli, contro natura, come quella che arma la mano di uno zio e fa dire a una madre che l’unico modo per tutelare il proprio onore è uccidere la propria figlia. Di queste cose dobbiamo avere il coraggio di parlare. Non è tacendo che avremo più strumenti per affrontare queste contraddizioni.
Dobbiamo anche avere il coraggio di capire la complessità. No, non tutti i musulmani si comportano così. Si, le storie personali contano, così come l’impatto della vita in Italia è diverso per ogni famiglia e individuo.
Dobbiamo fare silenzio e ascoltare le voci dei ragazzi e delle ragazze della comunità pachistana. Dobbiamo metterci in discussione su come scuola, istituzioni, servizi sociali possono aiutare a favorire convivenza e integrazione.
E dobbiamo essere consapevoli che abbiamo un solo principio guida, le regole e le leggi dello Stato italiano. Il relativismo o peggio la criminalizzazione di una religione o una nazionalità possono essere schemi riduzionisti per leggere la realtà in modo semplificato ma non saranno mai strumenti per far funzionare società sempre più complesse perché multietniche.
Dobbiamo far rispettare le regole dello Stato italiano, e dobbiamo fare sì che chi arriva in Italia queste regole le capisca, le faccia proprie. Dobbiamo tutelare chi vuole vivere secondo la propria cultura di appartenenza, ma nei limiti di quanto prevede la legge italiana. E soprattutto dobbiamo garantire che questa sia una libera scelta e non imposizione di una famiglia o di una comunità, tutelando fino in fondo chi sceglie di vivere altrimenti. Non è un processo semplice e lineare. Ma è l’unico processo possibile per favorire la convivenza e l’arricchimento reciproco che deriva dall’incontro tra popoli diversi.