da Corrispondenza Romana (Cristina Siccardi) – Gli slogan provocatori e scurrili che venivano lanciati dalle femministe nelle vie e nelle piazze di 50 anni fa, erano di odio contro se stesse, prima ancora che contro gli uomini; contro la vita; contro il bene e la pace, propria e altrui; contro le verità del Cristianesimo e delle sue insuperabili, incommensurabili bellezze spirituali e tangibili.
«Le radici della nostra individualità», scriveva Elena Giannini Belotti nel 1973, in quel libro tanto di grande successo quanto di grande bruttura personale e collettiva, dal titolo Dalla parte delle bambine. L’influenza dei condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni di vita (Einaudi), «sono profonde e ci sfuggono perché non ci appartengono, altri le hanno coltivate per noi, a nostra insaputa. La bambina che a quattro anni contempla estatica la propria immagine allo specchio è già condizionata a questa contemplazione dai quattro anni precedenti, più nove mesi in cui è stata attesa e durante i quali si approntavano gli strumenti atti a fare di lei una femmina il più possibile simile a tutte le altre», ovvero schiava del pensiero maschile.
Pertanto, secondo questa scrittrice ancora vivente, che diresse il Centro Nascita Montessori di Roma dal 1960, anno della fondazione di questa istituzione – che si proponeva di preparare le gestanti al compito di madri «rispettose della individualità del bambino» – «l’operazione da compiere, che ci riguarda tutti, ma soprattutto le donne perché ad esse è affidata l’educazione dei bambini, non è quella di tentare di formare le bambine a immagine e somiglianza dei maschi, ma di restituire a ogni individuo che nasce la possibilità di svilupparsi nel modo che gli è più congeniale, indipendentemente dal sesso a cui appartiene».
Ecco, già qui, la malapianta dell’ideologia «gender»: viene misconosciuta la natura biologica dei due sessi, perché tutto dipende dall’osservazione culturale e sociale pregiudiziale e non dalla natura in sé, con le sue leggi intrinseche.
Il male che il movimento femminista ha svolto in tanti decenni è incalcolabile: divisioni all’interno dei nuclei familiari (cellule primigenie della società); insicurezza maschile; soffocamento della figura del padre; occupazione di troppi posti di lavoro, talvolta finanche inopportuni; abbandono dei propri compiti di spose e di madri; incremento esponenziale di promiscuità e libertinaggio; morti per aborto (ovvero infanticidi)… Ma come tutte le idee insane, malvage e orribili, perché opposte alle leggi del Creatore, quindi opposte all’uomo, Sua creatura, anche questa è destinata a crollare inesorabilmente e con infamia.
Il 6 luglio ricorre la memoria di santa Maria Goretti (16 ottobre 1890-6 luglio 1902), figura assolutamente da bandire per le femministe, e che sarà festeggiata a Nettuno, come tutti gli anni, con una bellissima processione celebrata dal Santuario intitolato a Nostra Signora delle Grazie e a lei stessa, che qui riposa. La fanciulla che scelse la morte piuttosto che la perdita della purezza, rappresenta uno schiaffo clamoroso agli ideali di chi non dà valore alcuno alla castità, virtù oltremodo feconda di bene per sé e per gli altri, come dimostrò Marietta, che, con la sua testimonianza e il suo perdono, ebbe a convertire il proprio assassino.
Vivere la virtù della castità da adolescenti e da giovani significa divenire donne fedeli a Cristo, se si sceglie la vita consacrata, e fedeli agli impegni presi davanti a Dio nel momento del sacramento nuziale. Non c’è realtà più straordinaria che essere in grazia di Dio e ciò si verifica, innanzitutto, se si persegue il candore e non certo la gestione disordinata di se stesse, fidandosi sconsideratamente delle passioni.
Se dapprima, con la beatificazione di Papa Pio XII (27 aprile 1947) e poi con la canonizzazione, sempre di Papa Pacelli (24 giugno 1950), devozione e popolarità della santa erano incontestate addirittura dai comunisti, visto che nel 1953, Palmiro Togliatti propose Maria Goretti come modello di vita alle giovani comuniste ed Enrico Berlinguer indicò nel coraggio e nella tenacia della piccola eroina un esempio da imitare per le giovani militanti comuniste, a partire dagli anni Settanta, con l’affermazione delle femministe, il nobile profilo della giovane originaria di Corinaldo, ha perso sempre più consistenza fino a sparire persino dalle prediche in chiesa, perché ritenuta troppo legata ad una visione tradizionale della femminilità: casta, votata alla maternità, al lavoro domestico, dunque condizioni inammissibili per la donna emancipata, intenta a competere a qualunque costo per un posto al sole nel mondo.
Se alle femministe, siano esse di vita libertina e/o intellettualmente impegnate, non importa nulla della “sfortunata” Marietta, figlia di lavoratori agricoli, analfabeta, denutrita, che lavorava pesantemente tutto il giorno, “prigioniera” dei “pregiudizi” cristiani, abbiano almeno l’umiltà, se a loro è dato il dono di averne conservata almeno un poco, di ascoltare ciò che scrisse nel suo testamento spirituale Alessandro Serenelli, l’omicida di colei che già ad 11 anni, quando morì, aveva già inteso tutto il senso della Vita:
«Sono vecchio di quasi 80 anni, prossimo a chiudere la mia giornata. Dando uno sguardo al passato, riconosco che nella mia prima giovinezza infilai una strada falsa: la via del male che mi condusse alla rovina. Vedevo attraverso la stampa, gli spettacoli e i cattivi esempi che la maggior parte dei giovani segue quella via, senza darsi pensiero: ed io pure non me ne preoccupai. Persone credenti e praticanti le avevo vicino a me, ma non ci badavo, accecato da una forza bruta che mi sospingeva per una strada cattiva. Consumai a vent’anni il delitto passionale, del quale oggi inorridisco al solo ricordo. Maria Goretti, ora santa, fu l’angelo buono che la Provvidenza aveva messo avanti ai miei passi. Ho impresse ancora nel cuore le sue parole di rimprovero e di perdono. Pregò per me, intercedette per me, suo uccisore. Seguirono trent’anni di prigione. Se non fossi stato minorenne, sarei stato condannato a vita. Accettai la sentenza meritata; rassegnato espiai la mia colpa. Maria fu veramente la mia luce, la mia Protettrice; col suo aiuto mi diportai bene e cercai di vivere onestamente, quando la società mi riaccettò tra i suoi membri. I figli di San Francesco, i Minori Cappuccini delle Marche, con carità serafica mi hanno accolto fra loro non come un servo, ma come fratello. Con loro vivo dal 1936. Ed ora aspetto sereno il momento di essere ammesso alla visione di Dio, di riabbracciare i miei cari, di essere vicino al mio angelo protettore e alla sua cara mamma, Assunta. Coloro che leggeranno questa mia lettera vogliano trarre il felice insegnamento di fuggire il male, di seguire il bene, sempre, fin da fanciulli. Pensino che la religione coi suoi precetti non è una cosa di cui si può fare a meno, ma è il vero conforto, la unica via sicura in tutte le circostanze, anche le più dolorose della vita. Pace e bene!».