(Giuliano Guzzo di Il Secolo Trentino) – C’è un modo decisamente semplice per affrontare o addirittura chiudere la discussione – che si apre in modo spesso polemico -, sul sessismo, le discriminazioni e il «destino biologico» come odioso tentativo di relegare la donna solo ad alcuni ruoli e cariche: chiarire che la parità non sarà mai identità. Infatti, posto che alcune tesi sono inventate o banalizzate – per esempio quella, appena citata, del «destino biologico» (affermare che uomini e donne abbiano mediamente inclinazioni differenti, non significa escludere le eccezioni) -, va chiarito che è sacrosanto spendersi per la parità dei diritti tra sessi.
Tra l’altro, trattasi di tema su cui proprio la cultura cristiana ha tanto da dire e tantissimo ha già fortunatamente detto: se al posto dell’Occidente così come lo conosciamo, oggi ci fossero stati o il solo mondo greco romano – privo dello straordinario apporto del cristianesimo – oppure quello islamico, le pari opportunità su cui tanto ci scaldiamo non sarebbero un discorso a metà, bensì un capitolo ma iniziato. È bene ricordarselo. Detto ciò, ben venga ogni iniziativa che metta bambine e bambini, ragazze e ragazzi sullo stesso piano, perché la parità rappresenta davvero un fronte cruciale, su cui ogni sforzo è da salutare positivamente.
Questa consapevolezza però non deve e non può oscurare un aspetto: la parità di diritti non potrà mai portare all’identità tra i sessi (mi scuso se non impiego il termine «generi»: sono, mea culpa, rimasto alla «Costituzione più bella del mondo», del gennaio 1948). Per un motivo semplice: maschi e femmine sono differenti. Certo, condividono la medesima identità dignità umana – ci mancherebbe altro! – e ciò che li unisce è molto più di ciò che li differenzia: tutto vero. Ma esistono e resistono differenze il cui mancato riconoscimento costituisce elemento grave, perfino di violenza. Alludo a differenze comportamentali, di gioco e di attenzione, riscontrate in neonati di pochissimi mesi di vita.
Alludo, poi, a quanto osservato nei cuccioli di primati, che si può escludere siano influenzati dal temibile patriarcato ma riflettono schemi d’azione assai simili agli umani. E non solo i primati: se si considera la cura dei piccoli – il temibile «accudimento» -, si scopre come essa coinvolga le femmine pressoché ovunque mentre le cure paterne risultano facoltative, e vengono osservate al massimo nel 5% delle specie di mammiferi. Beninteso: l’esistenza di simili differenze, nelle quali l’influsso biologico ed ormonale è inoppugnabile, non autorizza il perpetuare equilibri arcaici e che lo stesso, vituperato Medioevo ha scardinato, dato che proprio da quell’epoca abbiamo traccia di donne alle prese con professioni di tutto rispetto e perfino esercitanti il diritto di voto.
Repetita iuvant, allora: viva le pari opportunità, sacrosanto diritto, abbasso la pretesa identità tra uomini e donne. Non c’è un Paese al mondo – non uno, inclusi i più progrediti – dove maschi e femmine siano egualmente distribuiti nelle professioni. Anzi, a dire il vero i lavori maggiormente a rischio, quelli in cui ci si lascia la pelle più spesso, restano specialità maschile. Ci son, pure qui, le eccezioni – si pensi a Luana D’Orazio, la ventiduenne morta i primi di maggio a Prato, nella fabbrica tessile dove lavorava -, ma la tendenza generale resta chiara. E di ciò, ovviamente, nessuna femminista si lamenta e molto di rado si sente parlare; ma basta ed avanza a chiarire che sì, davvero la parità non sarà mai identità.