(Francesca Baronio di ispionline.it) – Le forze armate del Myanmar, conosciute anche come Tatmadaw, nascono quando l’ex Birmania era in guerra con la Gran Bretagna. La storia narra di una cerimonia a Bangkok nel 1941, dove il cosiddetto gruppo dei “Trenta compagni” decise di fondare un esercito con lo scopo di liberare la Birmania dagli inglesi, dando vita alla resistenza armata che portò il paese all’indipendenza nel 1948. Un momento storico magnificato nel Museo militare di Nay Pyi Taw, la capitale del Myanmar, dove si trovano racconti e testimonianze dell’evento. Da allora, a parte un breve periodo (dal 1948 al 1962), i militari hanno sempre avuto un ruolo cruciale nel governo del Myanmar.

Tatmadaw: un simbolo nazionalista
Nel 1962 arriva al potere con un colpo di stato il Generale Ne Win, che inaugura la via birmana al socialismo. Esponente di primo piano dei “Trenta Compagni”, Ne Win è uno dei fondatori dell’esercito, che investe di un forte significato nazionalista, cavalcando il fatto che fra gli altri fondatorifiguri anche il Generale Aung San. Ucciso nel 1947 dagli ultranazionalisti, Aung San è da sempre considerato il padre della patria. A lui è attribuito un ruolo fondamentale nella nascita della Birmania indipendente, è inoltre, il padre di Aung San Suu Kyi, icona e leader della Lega Nazionale per la Democrazia (NLD), il partito che vinse le elezioni nel 1990, nel 2015 e da ultimo nel 2020, quando i militari non accettando il risultato ripresero il potere assoluto con il colpo di Stato dello scorso primo febbraio.
Aggrappandosi ai valori di nazionalismo e riscatto sociale in chiave anti-coloniale inglese e giapponese (il Giappone occupò brevemente l’ex Birmania durante la Seconda guerra mondiale), Ne Win governò il paese con pugno di ferro per 26 lunghi anni, inaugurando la storia della dittatura birmana dei generali.

Il guardiano della nazione
L’idea dell’esercito come spina dorsale del paese nasce in questi anni: i suoi uomini appartengono all’etnia Bamar, quella predominante in Myanmar, sono buddisti e si considerano i guardiani della Patria. L’ex Birmania è composta di 135 gruppi etnici, e fatica da sempre trovare unità. Di fatto, da oltre settant’anni gli scontri armati non sono mai cessati, e le spinte separatiste mai sopite. Ecco dunque che il Tatmadaw impone la sua visione di collante del paese, come forza necessaria per garantire sicurezza e stabilità.
Secondo quanto ha detto Thant Myint U, il più famoso storico birmano contemporaneo, “La retorica militare, legata al nazionalismo e alla religione buddista si è rafforzata negli ultimi anni. Spesso gli occidentali confondono il buddismo birmano con quello del Dalai Lama e una visione pacifista del mondo. In realtà il buddismo in Myanmar è un misto fra religione, astrologia e tradizione, con una forte connotazione conservatrice derivata dalla corrente buddista Theravada. Nel passato anche i re birmani si professavano buddisti, ma questo non gli ha impedito di uccidere migliaia di persone. Rifacendosi agli stessi principi, nella storia più recente i generali birmani si sono sentiti investiti del ruolo di protettori, anche quando ciò implicava l’uso della violenza. Il generale Than Shwe, il dittatore che ha guidato il Myanmar dal 1992 al 2011, era sicuramente molto condizionato da una visione superstiziosa del mondo legata ad astrologia e numerologia. Anche il generale Min Aung Hlaing, attuale capo della giunta birmana è molto religioso nel senso tradizionale birmano.”
Ma, se la religione resta il maggior collante del paese, l’idea dell’esercito come guardiano della sicurezza della nazione si è logorata nei lunghi anni della dittatura, quando fra il popolo birmano e i militari iniziò a scavarsi un fossato di timore e diffidenza. Una circospezione destinata ad aumentare dopo l’apertura del Myanmar nel 2011, che portò alle elezioni del 2015 e alla travolgente vittoria dell’NLD.
In questo periodo il paese acquisì un’apparenza democratica. Stati Uniti e Unione Europea revocarono le sanzioni economiche. In un brevissimo lasso tempo il Myanmar cambiò faccia. Arrivarono internet e i telefoni cellullari, che diventarono popolari non solo nelle città ma anche nelle campagne e nelle zone più remote.
Il confronto con il mondo esterno stimola la fame di libertà delle giovani generazioni, mentre la distanza con l’ideologia nazionalista e la voglia di comando dell’esercito birmano diventa incolmabile.

L’illusione di una transizione democratica e pacifica
Nell’agosto 2017 i militari attaccarono migliaia di musulmani di etnia Rohingya nello stato del Rakhine, ai confini con il Bangladesh. Bruciarono interi villaggi, seminando morte, violenze fisiche e morali costringendo 800mila persone alla fuga. Tanto che le Nazioni Unite parlano di possibile genocidio.
Un episodio che non sorprende chi conosce bene il paese e la lunga storia d’intolleranza e usurpazioni cui la minoranza musulmana è soggetta da anni. Nonostante l’apparenza democratica, grazie alla costituzione del 2008 il Tatmadaw non è soggetto ad alcuna autorità civile e controlla esercito, polizia e guardie di frontiera. Nomina unilateralmente un quarto del parlamento e detiene il potere in tre ministeri chiave: Difesa, Confini e Interno. Negli anni il regime dei generali ha sedato nel sangue due importanti rivolte. La prima nel 1988, quando nel pieno di una gravissima crisi economica, l’esercito sparò sulla folla scesa in strada per la prima volta a manifestare apertamente il dissenso. Migliaia di studenti furono arrestati e altrettanti brutalmente uccisi. E sempre nel sangue l’esercito sederà la cosiddetta rivoluzione zafferano del 2007. A guidarla questa volta furono i monaci buddisti che riempiono le strade della capitale economica del paese, Yangon, con il color zafferano delle loro tuniche.
“I militari usano da sempre la stessa strategia, che è quella di arrestare e poi uccidere i manifestanti ”, dice Van Tran, ricercatrice della Cornell University che ha studiato le rivolte del 1988 e del 2007 in Myanmar. “Come nel passato, si tratta di operazioni su larga scala con l’intento di bloccare le rivolte il prima possibile, con il chiaro intento di sminuirne la portata. Se da un lato non si fanno scrupolo a uccidere chi manifesta, dall’altro fanno sparire i corpi della gente assassinata. Un’operazione meno semplice che in passato, perché oggi esistono i telefoni, le foto e i video, che nonostante la censura, testimoniano quel che sta succedendo…”
A mettere nero su bianco l’efferatezza della repressione del regime birmano, oltre alle centinaia di testimonianze via social, è una ricerca che l’Associated Press ha condotto assieme dell’Università di Berkeley. Racconta come i militari mettano in atto vere e proprie campagne di terrore, espongono i corpi di cadaveri e feriti per le strade, diffondono foto di prigionieri prima e dopo pestaggi e torture. Il tutto con il chiaro intento di creare un clima di ansia, incertezza e paura.
Secondo AAPP, un’ONG che si occupa di assistere i prigionieri, dall’inizio del colpo di Stato sono state arrestate oltre 5 mila persone, mentre i morti sono circa 900. Numeri tragici, ma non veritieri per difetto, in quanto all’appello mancano i dispersi. Spesso si tratta di persone assassinate, i cui corpi con ogni probabilità sono stati occultati dai militari, da un lato per mantenere più basso il numero dei morti, dall’altro per accrescere la ben rodata strategia della tensione.

Uno Stato nello Stato
Dopo oltre 50 anni di dittatura i militari sono diventati uno Stato nello Stato, con proprie istituzioni: scuole, ospedali, università. Molti fra loro vengono “reclutati” ancora bambini nei monasteri buddisti, dove migliaia di minori orfani, o provenienti da famiglie economicamente indigenti, vengono cresciuti secondo i dettami religiosi. L’arruolamento nelle file dell’esercito avviene attorno ai 10 anni di età, e da allora i legami con l’esterno sono ridotti al minimo.
I militari vivono lontani dalla gente, rinchiusi nei loro compound. Hanno le loro regole e un sistema che permette a chi fa carriera di godere di enormi privilegi economici, come spiega Oliver Slow della ONG Asian Parliamentarians for Human Rights.“Il Tatmadaw è il più grande attore economico in Myanmar, con interessi commerciali in ogni settore economico del paese: estrazione mineraria, petrolio e gas, birra, telecomunicazioni, ma anche l’intero settore dell’edilizia pubblica e del turismo. I militari operano principalmente attraverso due conglomerati economici, il MEHL e il MEC. Data la natura notoriamente riservata del Tatmadaw, è difficile stabilire quale sia il valore economico dei due gruppi, ma è un importo considerevole, in gran parte destinato a finanziare le campagne di violenza e terrore che sono attualmente in atto contro il popolo birmano.” Informazioni confermate nel rapporto Fact Finding Mission on Myanmar (FFMM) delle Nazioni Unite, che investigò sugli interessi economici del Tatmadaw dopo il massacro dei Rohingya del 2017.
Secondo l’agenzia OHCHR che ha steso il dossier, all’interno di MEHL e MEC ci sono 106 imprese, più 27 esterne ma direttamente legate ai due gruppi. Entrambi i conglomerati sono esenti da imposte e non hanno mai reso pubblici i loro conti. L’unico parametro economico fornito dal dossier si rifà a una dichiarazione del 2017 dell’allora vice ministro della Difesa Myint Nwe per cui il MEHL valeva $119,4 milioni.
Il dato più recente deriva dal commercio di giada, di cui il Myanmar detiene il 70% della produzione mondiale. Secondo l’inchiesta di Insider, il settore da solo varrebbe $31 miliardi, e sarebbe completamente nelle mani dei militari. Il dato è ancora più significativo se paragonato al Pil del Myanmar pari a $76 miliardi (fonte World Bank).
Ma si tratta, appunto, di dati che i generali custodiscono molto gelosamente. Ultimamente Mratt Kyaw Thu, giornalista birmano inviso al regime, aveva postato un dossier sul generale Min Aung Hlaing e sulle società a lui direttamente legate, tweet prontamente rimosso dalla censura del regime.
Secondo Thant Myint U l’esercito può contare su circa 300.000-350.000 uomini, di cui solo la metà con reali capacità di combattimento.  A questi vanno aggiunti circa 80mila poliziotti. Ad essere temute sono soprattutto le unità di fanteria leggera come la 33esima e la 99esima, le stesse che si sono macchiate di crimini contro l’umanità in Rakhine, e che sono state inviate nel momento più caldo della protesta a Yangon e ultimamente nelle zone etniche. “Non sono i numeri dell’esercito a dover preoccupare la resistenza birmana”, continua Thant Myint U. “Negli ultimi dieci anni, le milizie birmane hanno sviluppato forti capacità nell’utilizzo di mezzi avanzati di artiglieria e aviazione. Ad esempio in Kachin i militari hanno schierato artiglieria di origine sovietica e hanno mezzi aerei russi e cinesi. Credo che sia difficile per la resistenza birmana riuscire ad avere la meglio su questo tipo di attacchi, che sono contemporaneamente via terra e via aerea”.
Pur essendo uno dei paesi più poveri dell’Asia, il Myanmar spende per il proprio esercito quanto per istruzione e sanità e secondo il Global Firepower, un sito specializzato sull’efficacia e la potenza degli eserciti nel mondo, l’esercito della ex Birmania, nel 2021, si classifica al 38ttesimo posto delle 140 esaminate.
Ma, se sulla potenza e sulla determinazione dei vertici dell’esercito birmano i dubbi sono pochi, ci sono, invece, dubbi sulla compattezza delle sue truppe. Stando alle ricostruzioni dei media sono fra gli 800 e i 1000 i soldati che hanno disertato. Dai loro racconti si evince un forte disagio per la violenza degli scontri, e per l’ordine di sparare contro i propri connazionali. I soldati semplici, a differenza dei gradi alti dell’esercito, hanno una paga molto modesta, circa 200 euro mensili.
I racconti pubblicati descrivono una vita controllatissima, basata su una gerarchia quasi feudale. L’esercito detta ciò che i soldati sono autorizzati a dire o a credere, sino a dire loro cosa indossare o come decorare la propria casa. Tutti i militari sono obbligati a vivere nelle basi dell’esercito e possono andarsene solo se autorizzati dai superiori, attraverso un processo lungo e pieno di ostacoli che dura circa 10 anni.  Qualora soldati semplici o graduati entrassero in rotta di collisione con il potere, moglie e figli verrebbero usati come deterrente, instaurando vere e proprie strategie di ricatto.

Nel Myanmar al collasso la resistenza si organizza
Questo spiega perché i battaglioni che hanno disertato, lo abbiano fatto solo una volta raggiunte le regioni etniche del Myanmar, dove la resistenza armata ha offerto loro protezione. Anche se si tratta di una situazione complessa, e ancora da definire, in diverse regioni del paese i gruppi armati di alcune minoranze etniche hanno aderito al progetto di un grande esercito federale nazionale, il PDF (People Defense Forces).
Si tratta di un programma ideato e supportato dal NUG, il Governo di Unità Nazionale, formato dai parlamentari democraticamente eletti a novembre 2020 nelle file del NLD. Una sorta di governo ombra, che oltre a cercare legittimità internazionale, sta lavorando a un esercito federale con l’intento di raggruppare sotto un unico cappello anche i gruppi che sino ad ora avevano combattuto il governo centrale di Nay Pyi Taw. Un progetto ambizioso che nell’idea del NUG dovrebbe raggiungere 2.300 unità. Ed è proprio per il sogno di un nuovo grande esercito federale del Myanmar, che molti giovani attivisti hanno abbandonato le città e le zone più centrali del paese per aderire agli eserciti locali come in Kachin o Karen, dove seguono veri e propri corsi di formazione militare.
Si tratta di un progetto suggestivo ma molto fragile: i numeri di un eventuale armata sono ancora tutti da verificare, così come la reale capacità dei vari gruppi di trovare accordi e superare vecchie ruggini per condividere posizioni di potere e coordinamento, ma anche interessi concreti, come ad esempio quelli legati alle coltivazioni di oppio nella regione dello Shan.
Intanto il paese è al collasso, paralizzato dalla paura e dalle fame. A seguito del colpo di Stato, una gravissima crisi alimentare è in atto nelle aree rurali delle regioni etniche secondo l’UNHCR, mentre i bombardamenti hanno costretto oltre 600 mila persone ad abbandonare case e campi e a rifugiarsi nei boschi e nelle foreste.
Per l’UNDP, il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite, il collasso economico è alle porte, così come l’esplosione della povertà; le banche continuano a non funzionare, i posti di lavori persi non si contano. La situazione della pandemia è senza controllo. I dati degli ultimi giorni parlano di 4mila casi al giorno, a fronte di controlli molto bassi, di sistema sanitario al collasso e di un’endemica mancanza di ossigeno. Così sempre più osservatori fanno riferimento ai rischi di uno stato fallito e alla necessità che gli attori internazionali si mobilitino per una soluzione. Una mobilitazione che, però, sembra sempre più improbabile, così come non pare plausibile una soluzione rapida della crisi, che rischia invece di protrarsi per anni. Ecco quindi che alcuni guardano a una possibile spaccatura dell’esercito come all’unica soluzione possibile. Benché la storia del Tatmadaw non abbia mai prodotto nulla di simile, , è senz’altro vero che l’esercito non è mai stato sottoposto una pressione così forte sia interna che esterna. Tanto che durante la recente visita del generale Min Aung Hlaing in Russia si era sparsa la voce di un possibile nuovo colpo di Stato, da parte del numero due dell’esercito, il Generale Soe Win. Si è chiaramente trattato di un falso allarme, ma la credibilità che in molti hanno dato ad una semplice voce fa pensare che una scissione dell’esercito, per quanto remota, non è affatto così impensabile.