(Aldo Vitale di Tempi) – “Un Cristianesimo autentico non dovrebbe essere contro, bensì coerentemente a favore della morte autodeterminata e dell’eutanasia”: così il prof. Giovanni Fornero, autorevole filosofo della cultura laica odierna, nonché allievo di Nicola Abbagnano,  conclude un suo intervento pubblicato recentemente sul tema della “teologia del morire felice” elaborata dal teologo svizzero Hans Küng (1928-2021).
Il merito di Fornero, che all’eutanasia ha dedicato una intera e intensa apologia di recente pubblicazione, è di volersi confrontare – senza i pregiudizi ideologici che affliggono molti esponenti della cosiddetta “intellighenzia laica” – con il pensiero teologico, nell’odierno contesto culturale, così fortemente secolarizzato da aver espunto la riflessione teologica – ben oltre l’inversione speculare del mero ruolo di ancilla philosophiae – dallo strumentario ermeneutico per la comprensione della realtà e dell’uomo contemporaneo.
Tuttavia, il confronto avviene con un teologo, quale è stato Hans Küng, che lo stesso Fornero definisce con ragione “controcorrente”, per evidenziare la eterodossa dissociazione dell’elaborazione morale del teologo svizzero rispetto alla linea tracciata dal magistero cattolico in genere, e in tema di fine vita in particolare.
Fornero evidenzia il merito di Hans Küng, che ha offerto una alternativa teologico-morale sul tema del fine vita e della legittimazione dell’eutanasia ricorrendo alla «fondazione teologica della libertà responsabile dell’uomo»: così come ha dimostrato la legittimità del controllo sempre maggiore dei processi vitali, quali quelli legati alla nascita tramite la fecondazione artificiale, essa oggi dimostrerebbe la legittimità del controllo umano della morte.
Fornero inoltre sottolinea la prospettiva di Küng per il quale il Dio cristiano è un Dio misericordioso, non un despota crudele, come avverrebbe con gli schemi morali della teologia cattolica tradizionale, che si crogiola della sofferenza umana. Chiede dunque Fornero: “Insiste il teologo, non sarebbe logico assumere che anche la fine della vita umana sia stata posta da Dio stesso sotto la responsabilità dell’uomo? Il Signore non vuole che gli attribuiamo una responsabilità che dobbiamo portare solo noi stessi. Infatti, con la libertà Dio ha dato all’uomo anche il diritto a una totale autodeterminazione (vollen Selbsbetimmung) la quale non significa affatto arbitrio, bensì libertà di coscienza”.
Sulla questione, così complessa da richiedere più adeguata trattazione, si possono accennare sintetiche riflessioni di metodo, nel campo teologico, filosofico e giuridico, e di merito, in relazione ai rapporti tra coscienza e verità, tra vita e morte, tra giustizia e misericordia, così da poter dimostrare gli equivoci e gli errori di base della prospettiva küngiana assunta, non soltanto dal prof. Fornero, come conciliabile con la dimensione teologico-morale cristiana in genere e della Chiesa cattolica in particolare.

Rilievi di metodo
Dal punto di vista teologico è bene precisare che la libertà della ricerca teologica non significa indipendenza dalla piattaforma teologica della tradizione, così come la libertà concessa nel gioco del Monopoli, per esempio, non significa indipendenza dalle sue regole. Ciò significa che proprio l’essere controcorrente della teologia di Küng rispetto alla piattaforma teologico-morale della Chiesa come consolidata in due millenni della sua storia non è un suo pregio, bensì un suo limite. Già da tempo la Congregazione per la Dottrina della Fede ha ribadito che «la libertà propria alla ricerca teologica si esercita all’interno della fede della Chiesa», non soltanto perché, come ha specificato Cipriano di Cartagine, «non può più avere Dio come Padre chi non ha la Chiesa come madre». Lo aveva sancito nel 1215 il IV Concilio Lateranense, ma più in generale lo sviluppo teologico per essere autentico non può contraddire la rivelazione e il depositum fidei che nell’arco dei secoli si è articolato nella tradizione della Chiesa.
Dal punto di vista filosofico, i profili problematici della morte assistita emergono prima che ex fide, proprio ex ratione, poiché riguardano la natura della prestazione medica, che già il precristiano Ippocrate aveva sottratto al giogo tanatofilo e tanatofero, e l’etica delle relazioni umane misurate secondo ragione e non secondo passione, cioè alla luce di una verità universale che trascenda le singole disposizioni interiori soggettive.
Dal punto di vista giuridico, proprio il passo di Küng che Fornero evidenzia, espone più problemi di quelli che si ritiene possa risolvere, poiché la migliore tradizione giuridica della civiltà occidentale ha insegnato l’esatto opposto di ciò che Küng reputa, cioè che il diritto non è mera volontà del sovrano, del principe, del legislatore, delle condizioni socio-storiche o delle contingenze socio-economiche: è invece il riflesso della naturale normatività dell’essere umano, ovvero della natura normativa della sua razionale relazionalità.
Ecco perché Cicerone per un verso e Immanuel Kant per altro verso hanno avuto somma cura di precisare, rispettivamente, che “non su una convenzione, ma sulla natura è fondato il diritto», e a rifuggire ogni visione ingenuamente empirica (come quella di Küng) intorno al diritto, poiché «una dottrina del diritto puramente empirica è (come la testa di legno nella favola di Fedro) una testa che può essere bella, ma che, ahimè!, non ha cervello”. L’errore di Küng sul punto è fin troppo grossolano per essere considerato un supporto adeguato al fine di fondare solidamente una dottrina teologico-giuridica legittimante la morte assistita.

Rilievi di merito
Per ciò che riguarda il merito, invece, occorre osservare che alla base del pensiero di Küng in tema di eutanasia si osserva una singolare interversio veritatis per cui non è la coscienza che – tanto cristianamente quanto kantianamente – si orienta alla verità, ma la verità che sostanzialmente è orientata, forse perfino plasmata, dalla coscienza. Tuttavia, elidendo il vero in senso oggettivo si elide altresì tanto lo stesso concetto di coscienza, che senza il vero diviene impensabile, quanto lo stesso principio soggettivo che si intenderebbe rivendicare, poiché non vi può essere nulla di soggettivo se il soggetto non possiede, conosce o comprende la natura, le dimensioni e i limiti della propria stessa coscienza.
La coscienza non può essere ridotta a banale psicologismo, cioè a mezzo per una riflessione incentrata sulla psicologia dell’intimismo, in quanto essa nel suo determinarsi sul piano morale, cioè nel distinguere il bene dal male, si configura quale momento di intellezione dei valori morali; in altri termini, la coscienza presuppone la soggettività dell’intellezione, ma non pone questa soggettività quale criterio di determinazione dei valori morali medesimi essendo questi fondati su elementi oggettivi: in sostanza non si ricerca il bene secondo la verità della coscienza, ma la coscienza ricerca il bene secondo verità, o, se si preferisce, la coscienza non ricerca veramente il bene fino a quando non ricerca il vero bene.
Per quanto riguarda la relazione tra la vita e la morte, almeno nella prospettiva cristiana che è quella in cui Küng ha preteso di inscriversi, e il ponte della sofferenza che le lega durante l’umana esistenza, non si può ridurre tutto ad una ingenua forma di divino sadismo, soprattutto in chiave teologica.
Se Karl Rahner ha giustamente osservato che «la morte viene superata bene se viene effettuata nell’atto in cui l’uomo rassegna sé e la sua realtà con incondizionata apertura alle disposizioni del Dio incomprensibile, perché e se l’uomo nella morte non è in grado di disporre univocamente di sé», Joseph Ratzinger, per parte sua, ha chiarito con la consueta lucidità che la fede cristiana non va in cerca del dolore, ma non rinuncia alla consapevolezza che senza la sofferenza la vita non può giungere alla propria pienezza. L’uomo cristiano, anche ampliando lo sguardo e ricorrendo alla efficace formula di Viktor Frankl, è strutturalmente e inevitabilmente homo patiens, non per perfidia divina, ma per inderogabile normatività della sua propria natura.
Infine, sul profilo dei rapporti tra giustizia e misericordia, proprio l’avvento del Cristianesimo ha insegnato che l’una non può esistere senza l’altra, ma che la seconda non cancella la prima proprio perché entrambe sono da ricondurre all’amore divino per le creature. L’amore divino si esprime nel fare giustizia, e il fare giustizia divino, a sua volta, si risolve nella misericordia, salvaguardando così all’un tempo il diritto e la libertà dell’uomo. In questa direzione, infatti, Hans Urs von Balthasar ha ricordato che “un amore che distruggesse il diritto sarebbe fonte di ingiustizia. Il vero amore è un eccesso di diritto, un sovrappiù che si spinge al di là del diritto, ma mai la distruzione del diritto”.
Alla luce di ciò appare evidente che il pensiero di Hans Küng sulla conciliabilità della morale cristiana con l’attuale visione tanatocratica in così rapida espansione nell’alveo della civiltà occidentale è molto meno lineare e giustificabile di ciò che può apparire di primo acchito. La teologia del morire felice teorizzata da Hans Küng in aperta contraddizione con la logica del “gioco cristiano”, con gli insegnamenti della Chiesa, con i princìpi della ragione, con gli insegnamenti della tradizione, rischia di essere soltanto il morire felice della teologia.