(da Green Report) – Padre Stan Swamy è morto il 5 luglio a Mumbai, in India, dopo 8 mesi di carcere. Una morte quasi passata inosservata in Italia, salvo per l’attenzione di persone come Stefano Tartarotti, autore della bellissima illustrazione che pubblichiamo, che ha ricordato che “L’ottantaquattrenne gesuita era gravemente malato di Parkinson e non era più in grado di mangiare, bere o lavarsi da solo. Era stato arrestato con false accuse di terrorismo assieme ad altre decine di persone, tra cui avvocati, scrittori, poeti e attivisti. Il governo nazionalista di Modi usa le leggi antiterrorismo per soffocare critiche e dissenso all’operato del governo. Per 50 anni Padre Swamy ha difeso gli Adivasi (una minoranza aborigena che vive in India) e le caste più basse dei Dalit contro gli interessi e gli abusi delle grandi società minerarie, aiutate da funzionari corrotti”.
Nell’annunciare la morte dell’anziano gesuita, , l’agenzia del Pontificio Istituto Missioni Estere (PIME) aveva ricordato che il decesso era avvenuto “dopo nove mesi di detenzione con l’accusa di terrorismo per il suo impegno in favore delle popolazioni tribali. Dalla fine di maggio egli si trovava presso l’ospedale della Sacra Famiglia di Mumbai dove – quando ormai la sua salute era profondamente minata – i giudici avevano concesso fosse trasferito dal carcere di Taloja”.
Il provinciale del gesuiti dell’India, Stanislaus D’Souza aveva dato il triste annuncio: “Con un senso di profondo dolore, angoscia e speranza abbiamo abbandonato p. Stan Swamy all’eterno riposo con l’autore della vita che gli aveva affidato la missione di lavorare tra i tribali, i dalit (i fuori casta ndr) e le altre comunità emarginate affinché i poveri avessero la vita e l’avessero in abbondanza. La Società di Gesù si impegna in questo momento a portare avanti l’eredità di p. Stan, nella sua missione di giustizia e riconciliazione”.
Nonostante l’età avanzata e il morbo di Parkinson in fase avanzata, Padre Swamy era stato arrestato l’8 ottobre 2020 dalla National Investigation Agency nel Jarkhand, dove per tutta la vita si è preso cura della difesa dei diritti delle locali popolazioni tribali, minacciate da interessi economici. Insieme ad altre 15 attivisti il gesuita era accusato di contatti con la guerriglia maoista nell’ambito dell’inchiesta sugli scontri avvenuti nel 2018 alla commemorazione della battaglia di Bhima Koregaon. Padre Swamy aveva sempre respinto queste accuse, sostenendo che i documenti che sostenevano le accuse contro di lui erano stati falsificati e inseriti dalla polizia nei computer che gli erano stati sequestrati. Per diverse volte i giudici di Mumbai hanno rifiutato la sua istanza di scarcerazione su cauzione.
Asia News spiega che “Solo dopo aver contratto in carcere il Covid-19, i giudici avevano acconsentito infine al suo trasferimento all’ospedale della Sacra Famiglia». In una drammatica udienza il 22 maggio, rifiutando un primo ricovero in un ospedale pubblico, Padre Swamy chiesto la scarcerazione per poter morire tra la sua gente: “Durante questi otto mesi c’è stata una lenta ma costante regressione di ogni funzione del mio corpo. Il carcere di Taloja mi ha portato a una condizione in cui non sono in grado né di scrivere né di camminare da solo. Sto chiedendo di considerare il perché e le modalità attraverso cui è avvenuto questo deperimento della mia salute. Potrei soffrire, forse morire anche molto presto se il peggioramento delle mie condizioni dovesse andare avanti. Ma qualsiasi cosa accada voglio poter stare tra la mia gente”.
Ora del suo caso se ne è occupata l’irlandese Mary Lawlor, relatrice speciale Onu sulla situazione dei difensori dei diritti umani, Adjunct Professor of Business and Human Rights al rinity College Dublin e fondatrice di Front Line Defenders, la Fondazione internazionale per la protezione dei difensori dei diritti umani.
La Lawlor ha detto in una relazione rivolta all’Onu che «La morte in custodia del sacerdote cattolico Stan Swamy, rinomato difensore dei diritti umani e della giustizia sociale da oltre quattro decenni, rimarrà per sempre una macchia nella storia dei diritti umani dell’India» e ha aggiunto: “Sono stata devastata nell’apprendere che padre Stan, un sacerdote gesuita che aveva dedicato gran parte della sua vita alla difesa dei diritti dei popoli indigeni e della minoranza adivasi, è morto in carcere il 5 luglio, nonostante le numerose richieste di rilascio a causa del peggioramento della sua salute in carcere. All’inizio di novembre 2020 esperti delle Nazioni Unite si erano uniti a me per sollevare il suo caso presso le autorità indiane, ricordando loro i loro obblighi internazionali in materia di diritti umani. Ora chiedo di nuovo perché non è stato rilasciato e perché è dovuto morire in custodia?”.
Nel suo appello, sostenuto da Fernand de Varennes, Relatore Speciale Onu sulle questioni relative alle minoranze, e Tlaleng Mofokeng , Relatrice Speciale Onu sul diritto alla salute fisica e mentale, la Lawlor fa notare che “La sua condizione di Parkinson significava che soffriva di forti tremori a entrambe le mani e aveva grandi difficoltà con le attività quotidiane come mangiare, bere e lavarsi. Aveva anche gravi difficoltà uditive, che richiedevano apparecchi acustici in entrambe le orecchie. Nel novembre dello scorso anno, le sue richieste di avere una cannuccia e vestiti invernali caldi sono state respinte. Ha contratto il Covid-19 in carcere”.
La Lawlor ammonisce il governo di destra induista indiano: “Non ci sono scuse, mai, perchè un difensore dei diritti umani possa essere tacciato di terrorista, e nessuna ragione mai per la quale dovrebbe morire nel modo in cui Padre Swarmy è morto, accusato e detenuto, vedendosi negati i suoi diritti”.
La fondatrice di Front Line Defenders ricorda perché l’anziano gesuita era così odiato dalla destra induista: “Padre Swamy era della provincia di Jamshedpur, nello Stato del Jharkhand. Era stato il fondatore di Bagaicha, un centro di ricerca e formazione sociale a Ranchi, nel Jharkhand. Ha lavorato per decenni per proteggere i diritti dei popoli indigeni della minoranza Adivasi e della minoranza Dalit, in particolare le violazioni che comportano sfollamenti forzati e acquisizioni illegali di terre. Sappiamo che i difensori che lavorano per i diritti all’ambiente, alla terra o delle popolazioni indigene sono tra i più vulnerabili a essere presi di mira”. La Lawlor ha concluso: “Il caso di padre Swamy dovrebbe ricordare a tutti gli Stati che i difensori dei diritti umani e tutti coloro che sono detenuti senza una base legale sufficiente dovrebbero essere rilasciati”.
Ma l’inutile martirio di Padre Swamy non ha fatto cessare le persecuzioni contro i cristiani: Sunil Sharma, capo della polizia del distretto di Sukma, nel Chhattisgarh, ha ordinato di mantenere una stretta sorveglianza sulle attività dei missionari cristiani e sui tribali convertiti. In una circolare inviata a tutte le stazioni di Polizia Sharma accampa motivi di sicurezza per i popoli tribali che di solito la polizia perseguita come comunisti Naxaliti maoisti: “I missionari cristiani e i cristiani tribali si avventurano abitualmente nelle aree interne del distretto e persuadono i tribali non cristiani a convertirsi offrendo loro lusinghe. Per questo non può essere escluso che la situazione sfoci in contrasti tra i tribali locali e quelli convertiti (al cristianesimo)” e per questo invita a “mantenere una vigilanza coerente sulle attività dei missionari cristiani e dei tribali convertiti residenti nel distretto e segnalare se qualcuno dei loro atti viene percepito come sospetto”. Poi si è giustificato così: “La circolare è di natura preventiva piuttosto che repressiva. Tenendo conto che in alcuni distretti vicini sono stati segnalati conflitti a causa di conversioni religiose, volevo che una situazione del genere non si verificasse a Sukma e che prevalesse l’armonia sociale. È stato chiesto alla polizia di raccogliere informazioni attraverso la sua rete sulle attività di conversione religiosa con lusinghe. Tutti hanno il diritto di seguire la propria fede”.
Ma il reverendo Babu Joseph SVD, ex portavoce della Conferenza episcopale indiana (Cbci), ha detto ad AsiaNews: “La circolare emessa dal capo della polizia del distretto di Sukma nel Chhattisgarh che ordina ai suoi subordinati di vigilare sui missionari cristiani sa di parzialità e arbitrarietà di un ufficiale di polizia che è obbligato dalla Costituzione a proteggere la libertà dei singoli cittadini e a garantire la loro sicurezza. Dalla sua circolare risulta che la causa principale delle tensioni sociali nel distretto sotto la sua giurisdizione è la presunta attività di conversione religiosa dei missionari cristiani. Tuttavia, il fatto chiaro della questione è che nessuna tensione sociale è unilaterale, è sempre bilaterale o addirittura multilaterale. Stando così le cose, la mossa del capo della polizia di indicare i missionari cristiani e non menzionare i sobillatori appartenenti alla maggioranza (induista, ndr) non è altro che fare il gioco dei poteri esistenti. Ci si aspetta che un vero agente di polizia usi le regole per garantire giustizia a tutti, specialmente a coloro che sono vittime. Sfortunatamente è diventato routine per alcune organizzazioni e alcuni nell’amministrazione prendere di mira i missionari cristiani con il pretesto della conversione religiosa come se non facessero nient’altro per la società. E mi sono sempre chiesto perché alcune organizzazioni di destra hanno riscoperto l’amore per i tribali le cui vite sono migliorate grazie all’intervento dei missionari cristiani. I tribali sono stati lì per tutto questo tempo e nessun missionario cristiano proibisce a nessuno di aiutare i tribali a migliorare il loro destino. Ma quando un missionario cristiano aiuta i tribali viene sempre etichettato come atto di conversione per corruzione? Questa è l’ipocrisia che dobbiamo sfidare. I fratelli e le sorelle tribali sono cittadini onorevoli di questo Paese proprio come chiunque altro e hanno tutto il diritto di determinare il corso della loro vita, comprese le credenze religiose”.
Intanto, nella capitale New Delhi la chiesa cristiana siro malabarese di Ladosara è stata demolita dalla Delhi Development Authority perché “si trattava di una costruzione illegale”. Ma Sajan K. George, presidente del Consiglio globale dei cristiani in India, ribatte: “La chiesa siro malabarese di Delhi è stata demolita anche se la causa con la Dda è ancora in corso. Il Consiglio protesta contro questa demolizione perché si tratta di un atto anti-cristiano. La chiesa è stata presa di mira perché i cristiani sono una minoranza discriminata”.
A inizio mese il papa aveva scritto una lettera ai membri della Chiesa siro-malabarese, invitandoli a uniformare il modo “di celebrare la Santa Qurbana [la messa], considerandolo un importante passo verso la crescita della stabilità e della comunione ecclesiale in seno all’intero corpo della vostra amata Chiesa”. Sorta nella regione costiera di Malabar, nello Stato del Kerala, la Chiesa cattolica siro-malabarese è una arcidiocesi maggiore sui iuris che ha adottato il rito siriaco orientale.
E ad essere presi di mira dagli estremisti di destra induisti non sono solo i cattolici: nello Stato dell’Haryana è stato assassinato Vinod Kumar, un ex indù che era diventato un leader evangelico. L’omicidio del pastore protestante è stato subito classificato dalla polizia come un delitto comune, ma Vinod Kumar, 42 anni, è stato ucciso da un suo conoscente indù, Sonu Kashyap, in un agguato nel villaggio di Sangoi, nel distretto di Karnal. Secondo la moglie Sunita Kumar, il pastore ucciso aveva ha ricevuto una telefonata del fratello di Kashyap che gli chiedeva di andare a visitare una persona malata. Appena lasciato il villaggio sulla sua moto Sonu Kashyap ha assalito Vinod Kumar, massacrandolo fino a che non è morto.
Sempre nell’Haryana è stato segnalato un nuovo caso di “riconversione” di 15 famiglie Dalit che avevano scelto di abbracciare il cristianesimo. L’8 luglio, il consiglio del villaggio di Nimdiwali, nel distretto di Bhiwani, ha costretto le famiglie a compiere dei rituali indù e ha denunciato il pastore locale alla polizia. Sajan K George, conclude: “Tanti innocenti sono sotto attenzione costante, soprattutto nelle aree rurali dell’India. Non c’è nulla di illegale nel condividere con qualcuno il vangelo senza forzare ad abbracciarlo. Ma le comunità maggioritarie vogliono solo che i Dalit restino sottomessi e discriminati”.